Non vi aspettate il documentario classico, perché nulla è classico quando riguarda Sua Maestà Vasco Rossi.
Se poi a dirigerlo c’è Fabio Masi, autore di Blob, e se kieslowskianamente ci si prende la briga di stilare addirittura un decalogo, la sfida è estrema. A giudicare dalla reazione del pubblico, stravinta. E pazienza se questo, probabilmente, è persino qualcos’altro che un film, un lavoro che con il cinema c’entra poco: uno come lui può mettersi a qualsiasi tavolo e ordinare ciò che più gli aggrada.
E così vediamo della rockstar l’icona e l’uomo. E quando diciamo l’icona, parliamo proprio della sua immagine: il protagonista, più ancora del re degli stadi, è un suo cartonato, abile stratagemma narrativo e visivo per provare ad andare oltre, così come la divisione in capitoli, scandita dai suoi successi e da temi particolari, dalla vascologia alla preparazione fisica (sì, l’uomo della Vita spericolata fa anche elioterapia e persino stretching), tra la consapevolezza di essere il numero uno e un’autoironia che con la vecchiaia è diventata un punto di forza. Sogni, visioni, suoni e realtà si mescolano, blobbati appunto, in un oggetto visivo che sembra parlare agli iniziati del fenomeno di Zocca, ma che funziona anche per chi vuole capirlo più a fondo o, addirittura, conoscerlo ex novo.
Delusa, Brava, Sally, Albachiara. C’è anche una parte più femminile che vuole contrapporsi alla fisicità e alla dialettica di Vasco, ma c’è soprattutto il sentimento, anche forte e urticante, a scandire una carriera pazzesca. Che non viene celebrata come nei docubiopic classici, ma piuttosto scandagliata nelle sue vene inconsce, provando a ca(r)pire i segreti di uno che la ricetta del successo, pur avendo avuto almeno quattro vite (musicali e non), sembra averla trovata. Infallibile, persino con ingredienti completamente diversi da una generazione all’altra.
C’è il Vasco live, forse il più entusiasmante, e quello più inaspettato, in vacanza, c’è quello che prepara il nuovo singolo, e video (Quante volte, ora in radio), e addirittura il prof, a Bologna. E sorprende quello che porta il regista in un luogo particolarissimo – non provate a chiederci quale, visto che il 26 settembre potrete godervi questa sua fatica cinematografica su Rai3, dopo Che tempo che fa – e si scopre intimista, sentimentale, riflessivo. Un uomo che si è donato al pubblico dopo una fase autodistruttiva e che per farlo almeno per due decenni ha rinunciato a tutto, a partire dalla famiglia.
Vasco è uno a cui spesso si è sotterraneamente rimproverato di non essere entrato nel mito con una fine spettacolare. Di aver fatto invecchiare l’icona, come Mick Jagger, esponendosi anche alla faccia più grottesca del rock (vedi le sue esperienze social, quasi morandiane). Ma la verità è che ha sempre ragione lui, gli stadi e le sale si accendono in un minuto con un solo gesto della rockstar. E forse il regalo di Masi più bello è la clamorosa idea di farci vivere un concerto dalla soggettiva del cantante. Un’idea semplice e geniale, che ci fa capire molto, se non tutto.
E la cosa più bella, in un documentario che pure ha i suoi difetti, è scoprire che in lui c’è un Anima fragile.
E no, non è Colpa d’Alfredo.