«Signora, le puoi dare questo?».
Il ragazzino con cappello peloso davanti a Palazzo Parigi mi allunga un biglietto.
«Ma io non…».
Io non so come spiegarglielo gentilmente, che mica ci vado a prendere un caffè, con Lady Gaga. Cara grazia se riuscirò a stare a un paio di metri da lei insieme ad altri giornalisti che – a differenza della sottoscritta – faranno carte false per fingersi annoiati, ché guarda, venire in uno degli hotel più belli di Milano, il sabato in tarda mattinata, per incontrare la diva protagonista indiscussa di House of Gucci, davvero mi scombussola il bioritmo.
Peccherò io di ingenuità, però insomma, a occhio e croce mi pare peggio la guerra.
Apro una velocissima parentesi: venerdì scorso c’è stata l’anteprima stampa del film di Sir Ridley Scott, che uscirà nelle sale il 16 dicembre prossimo e ormai non ha più bisogno di presentazioni. Di House of Gucci non posso anticipare nulla, pena essere prelevata dal Mossad e portata nel carcere di massima sicurezza di Gilboa. Il giorno successivo, quindi sabato, era previsto l’incontro con la stampa – blindatissimo – con Lady Gaga, che interpreta (favolosamente, lo posso scrivere?) Patrizia Reggiani: il mantra è molto semplice, no domande personali, no foto, si parla solo del film. Chiusa parentesi.
Mi congedo da cappello peloso e dai fan accalcati lungo corso di Porta Nuova insieme ai fotografi con un cenno della mano da star navigata («Lady Gaga c’est moi!»), e molto professionalmente mi dirigo verso la sala in cui si terrà la conferenza st… ehm, no. Molto professionalmente m’avvento sul buffet allestito per noi comuni mortali scribacchini. È quasi l’una, ma per me è sempre l’ora della brioche, se in formato mignon ancora meglio: due pain au chocolat; massì, assaggio anche questa delizia multicereali; oh, mi dà pure un paio di mini-frolle? Con il piatto traboccante di zuccheri e carboidrati, ci si gode doppiamente lo sbattimento di chi ti sta intorno: il problema – mi sembra di capire – è che lei (lei: Stefani Joanne Angelina Germanotta) non vuole ci sia nessuno fuori dalla Sala Belvedere, nessuno deve vederla arrivare, dunque occorre far defluire chiunque (giornalisti, security, ufficio stampa, eccetera) all’interno in tempi piuttosto rapidi.
Ho ancora in bocca la delizia multicereali quando ci danno il via libera: la prima fila è già tutta riservata, m’accontento di una sedia in seconda che – come dice la tizia seduta alla mia sinistra – «è la nuova prima fila». «Scusa, ma il tuo funziona?», mi fa quella alla mia destra, indicando l’apparecchio per la traduzione simultanea. Apro un’altra parentesi (sì, state leggendo un pezzo di colore sul mondo fatato del giornalismo, il titolo è quanto di più ingannevole potessi concepire). Comunque la parentesi non era questa, bensì: possibile fossi l’unica, oltre a due, tre cristiani, a non aver richiesto la traduzione simultanea? Anziché regalare ai giornalisti viaggi, pranzi, cene e gadget, gli uffici stampa non possono omaggiarli di un bel corso al Wall Street Institute? Gente che discetta di cinema da anni e ha bisogno dell’insegnante di sostegno per affrontare mezz’ora di (comprensibilissima) chiacchierata in inglese priva di accenti di sorta: pronto?
Ad ogni modo, tempo di ostentare le mie competenze linguistiche («Mi spiace, io non l’ho preso»), che ci viene ripetuto il mantra di cui sopra: no domande personali, no foto, si parla solo del film. «Quindi i video si possono fare?»: maledette mascherine, avrei tanto voluto guardare in faccia il fulmine di guerra per il quale un divieto di fare foto implica un’autorizzazione ai video, avrei desiderato chiedergli la logica sottesa a un ragionamento così sfumato e complesso, ma mi sono dovuta accontentare del «No» elargitogli fin troppo pacatamente dagli energumeni della security. Poi, bando alle ciance: eccola, è arrivata, lei, Lady Gaga, in abito nero, lungo, un po’ vedo-non-vedo, stampa floreale, non Gucci ma Valentino, ai piedi dei plateau che definirei “importanti”, occhi bistrati e l’inconfondibile chioma biondo platino. È bellissima, visibilmente emozionata (una posa? Chissenefrega: durante la conferenza stampa come da copione si commuoverà, in pieno Gaga-style): «La mia famiglia viene da questo Paese, sono talmente eccitata che vorrei gridare, piangere». Tranquilla Stefani, pure io.
Si aprono le danze delle domande, a turno, per alzata di mano: «Volevo chiederle che cosa ne pensa del successo americano dei Måneskin». Italiani, popolo che, se gli dai delle regole, sai già che non t’ascolterà e farà il contrario di ciò che gli dici: il cronista duro di comprendonio di un noto quotidiano spiazza l’uditorio, si crea un microclima di confusione («Eh ma non c’entra col film!», «Eh ma allora vale tutto!»), Gaga è lievemente imbarazzata, una furbina di un noto periodico ne approfitta per scattare una foto sperando di non essere beccata. Nulla però sfugge agli occhi degli energumeni della security, e manco ai miei: uno di loro le si avvicina e la costringe a cancellarla; lei esegue ma lui insiste – «Anche dal cestino, tesoro» – e in quell’istante la poveretta saluta il prestigio social(e) che la pubblicazione su Instagram le avrebbe garantito.
Incidente archiviato, non perdiamo attimi preziosi: una parola buona per Bradley Cooper («Senza Bradley oggi non sarei qui»); per la famiglia («Sono italoamericana, e anche la mia casa si poggiava sul duro lavoro: mio nonno era un calzolaio, non ha costruito un impero come quello dei Gucci, certo, ma ha fatto enormi sacrifici»); per Patrizia Reggiani («Si tratta di una donna che ha commissionato un omicidio, che s’è macchiata di un crimine orribile, ma ho trovato il mio personale modo di volerle bene, perché era una giovane ragazza di Vignola che sognava in grande e voleva una vita migliore»). Nessuno solleva una questione che mi sta a cuore, quindi alzo la mano: parto lodando la sua performance e le racconto che da ragazzina, quando avvenne l’omicidio Gucci, seguii la vicenda convinta che fosse stata l’avidità a spingere la Reggiani a commissionare l’omicidio dell’ex marito. Ora la mia certezza traballa, grazie al film, grazie al ritratto che lei, Lady Gaga, fa della socialite di Vignola. Senza arrivare a giustificarla e senza riscrivere in maniera faziosa la storia, spera che potremo rimettere in discussione la figura di questa donna, descritta così unilateralmente dai media dell’epoca?
Lady Gaga mi ringrazia, sorride, annuisce: «Quello che so – attraverso le ricerche fatte studiando il personaggio – è che quando Patrizia e Maurizio si sono sposati i Gucci l’avevano emarginato, e in palio non c’erano i soldi, c’era soltanto l’amore. Tante donne vengono considerate delle arriviste, delle semplici cacciatrici di dote: non ci si sofferma mai a pensare che per molte è solo un modo per sopravvivere, senza contare che ancora oggi molte ragazzine vengono spinte a misurare il proprio valore attraverso il matrimonio con un uomo ricco. A dodici anni la madre di Patrizia, Silvana, le mostrava le foto di scapoli d’oro da frequentare, inculcandole l’idea di valere qualcosa solo in virtù della sua bellezza e del buon partito che avrebbe sposato. Spero ci sia una conversazione che coinvolga queste donne spinte al limite, esattamente come lei. A tutte loro vorrei dire: “Se ritenete di non contare, tenete duro. E se sopravvivete, cercate di restate integre”».
Pochi minuti, e il tempo a nostra disposizione si esaurisce: qualche foto di rito per i fotografi ufficiali, e Stefani s’avvia verso l’uscita col suo entourage al seguito. Prima di scomparire dalla mia visuale, però, si volta per un’ultima volta e – momento mitomania – guardando nella mia direzione, mi saluta con la mano. Ricambio (ha salutato me! Me! Non me lo toglierete!) e con un carico d’adrenalina in eccesso affronto la folla in corso di Porta Nuova, che intanto s’è quintuplicata. Il ragazzino con cappello peloso ha conservato la stessa identica posizione di partenza.
«Signora, signora! Sai tra quanto esce? Com’era vestita?».
Inforco gli occhiali da sole, gli sorrido, replico il saluto à la Gaga e opto per una puntatina da Biancolatte: è trascorsa poco più di un’ora dalla mia abbuffata di dolcetti, ma vuoi l’emozione, vuoi la mitomania, m’è venuta una fame che, caro ragazzino, non ti sto manco a spiegare.