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Ci sono pochissimi attori con il talento e il carisma di Sean Penn. E ce ne sono ancora meno con quella filmografia. Nella sua carriera ultratrentennale ha interpretato un numero esagerato di ruoli, mettendo a segno performance sempre in qualche modo cult e spesso anche nel segno dell’attivismo: un adolescente funky, una rockstar attempata, un uomo nel braccio della morte, un politico gay. Nello stesso tempo ha anche collezionato premi su premi (tra cui un paio di Oscar) e relazioni con il meglio su piazza: dalla scatenata (e giovane) Madonna all’algida Robin Wright. Lasciando da parte i lavori un po’ altalenanti come regista, ecco il best of delle sue performance. Nonostante il tempo passi, resta sempre il bad boy più cool di Hollywood.
Una di quelle performance che “chiamano” i premi (o quantomeno le nomination: quella agli Oscar è arrivata puntuale). Il più classico dei film sulla malattia (qua il protagonista è affetto da ritardo mentale), con svolta legal: di mezzo c’è l’affidamento della figlia, cioè l’allora baby-prodigio Dakota Fanning. Incredibilmente, Sean non strafà (e commuove): solo per questo è finito in classifica.
Tra i film degli esordi (vedi anche Fuori di testa e Crackers), questo è forse quello che lo segnala da subito come… bad boy (pardon). La rabbia dell’allora 23enne Penn, alias il teppistello Irish Michael O’Brien, è feroce ma umana. E riesce a reggere da sola tutto il peso del dramma carcerario. Un perfetto ritratto da rebel without a cause: ma con un grande futuro davanti.
Ovvero: il peso dell’anima. Di anima il nostro ce ne metta tanta (pure troppa), nel mélo “tossico” by Alejandro González Iñárritu. È il matematico malato di cuore che aspetta un trapianto: arriverà l’organo del marito defunto della povera Naomi Watts. Come se non bastasse, c’è pure Benicio del Toro, l’ex detenuto diventato un cattolico integralista. Per stomaci forti: ma Sean eccelle sempre.
C’è chi detesta sia il film sia la performance principale. Ma com’è possibile non trovare adorabile il suo Cheyenne, rockstar 80s con cofana e mascara? Sean Penn, presidente di giuria a Cannes nell’anno del Divo, tiene a battesimo il primo grande progetto internazionale di Sorrentino. E gli regala un’interpretazione naïf e dolente. «I feel numb, born with a weak heart»: i Talking Heads avevano già profetizzato il personaggio.
Brian De Palma l’aveva già diretto nel bellico Vittime di guerra. Ma è con la parabola di Carlito Brigante (un sempre gigantesco Al Pacino) che gli offre l’occasione per la consacrazione definitiva. Ovvero la parte di David Kleinfeld, l’avvocato che dovrebbe difendere il protagonista, ma si trova ugualmente tentato dalla malavita. Indimenticabile la sequenza sulla barca di notte, e la fine di entrambi. Sean entra nel culto cinéphile.
È difficile trovare il migliore nel cast di questo allora attesissimo terzo film di Terrence Malick. Ma Sean è sicuramente il candidato in pole nei panni del sergente Welsh, il soldato super cinico e stronzo che si oppone a quello sempre ottimista interpretato da Jim Caviezel. Il film è pieno di splendide sequenze di battaglia ma, dentro il quadro più grande, ci sono piccoli grandi scontri metaforici. Uno sguardo filosofico sulla guerra, con un Penn da antologia.
Sean + Clint Eastwood = primo, meritatissimo Oscar come miglior attore protagonista al nostro. Che, nei panni dell’ex detenuto deciso a vendicare l’uccisione della figlia adolescente, dovrà affrontare ferite infantili trasformate ormai in un dolore che non se ne va più e mettere in discussione gli amici di una vita. Un drammone tormentatissimo, in cui Penn strabilia.
Tra i film oggi più sottovalutati di Sean c’è anche uno dei titoli più sottovalutati del Woody anni ’90. Quella del “secondo chitarrista più bravo al mondo dopo Django Reinhardt” è una fotografia struggente ed elegantissima: vedi il décor anni ’20 e le magnifiche spalle Uma Thurman e Samantha Morton. Ma il vero fuoriclasse è Penn: che conquista (meritatamente) la sua seconda candidatura agli Oscar. Ormai non è secondo a nessuno.
Grazie alla mano di Gus Van Sant e – soprattutto – alla sensibilissima prova di Penn, quello che avrebbe potuto essere un semplice biopic militante diventa la dolorosa storia di un uomo. Cioè Harvey Milk, il consigliere comunale di San Francisco tra i primi attivisti LGBTQ brutalmente assassinato nel 1978. Oggi probabilmente a Sean non lo farebbero interpretare, in quanto etero: fortuna erano altri tempi, altrimenti oggi non avremmo una delle più belle performance della sua carriera. Che l’ha portato a vincere il suo secondo Academy Award, a soli cinque anni dalla statuetta per Mystic River.
Un altro capitolo di attivismo cinematografico, questa volta contro la pena di morte. Penn è Matthew Poncelet, un detenuto che si trova nel braccio della morte per un omicidio violento che però sembra essere sempre meno limpido. Susan Sarandon invece è una suora che stabilisce un legame speciale con lui, e per questa interpretazione si è portata a casa l’Oscar. Per Sean arriva “solo” la prima nomination. Ma il film è probabilmente una delle opere più potenti sul tema, con il regista e il cast che riescono a presentarci la storia in modo equo e oggettivo, fino alla sua devastante conclusione. Una delle performance più crude di Penn. E la più clamorosa.
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