Da Janis Joplin a Joan Jett, da Courtney Love a Lady Gaga, passando per Madonna, Beyoncé, Patti Smith, Björk, Rihanna e le tantissime figure femminili diventate icone della musica. Oggi, nel giorno internazionale delle donne, erano moltissime le voci di cui potevamo raccontare, tantissimi i ritratti che potevamo disegnare. Per l’8 marzo, tuttavia, abbiamo scelto 8 donne di cui raccontare le storie, 8 volti forse meno conosciuti delle colleghe succitate ma non per questo meno importanti, anzi, forse anche di più. Otto donne la cui importanza per la musica è stata epocale, otto donne che hanno cambiato le regole, infrangendo confini prima di loro quasi invincibili, armate solo della propria voce.
Sister Rosetta Tharpe
Cantante, cantautrice, chitarrista e prima grande star del gospel. Con il suo suono ha influenzato colleghi incensati nell’Olimpo della musica come Elvis, Jerry Lee Lewis, Johnny Cash, Little Richard e Chuck Berry, tanto che oggi è conosciuta anche come la ‘Madrina del Rock’n’Roll’. Il suono di Sister Rosetta Tharpe ora è considerato iconico, molto più di quando la musicista era in vita. Nata in una piantagione di cotone, ha iniziato a esibirsi a quattro anni accompagnando la madre, predicatrice evangelista per poi, a 23 anni, cominciare a registrare per la Decca Records, continuando a far musica durante la Seconda Guerra Mondiale. I suoi testi divennero oggetto di scandalo per come riusciva a miscelare il sacro al profano, per non parlare di quando prendeva in pugno la sua Gibson: il suo stile chitarristico – definito ‘ancestrale’ – è spesso stato paragonato a quello di Chuck Berry o Keith Richards, senza tuttavia mai diventare celebre come quello dei suoi più osannati colleghi uomini.
Melba Doretta Liston
Meravigliata da un assurdo oggetto d’ottone, Melba Doretta Liston rimase folgorata dal luccichio del trombone a soli sette anni. Dopo appena un anno, trascorso a dissanguarsi su uno strumento più grande di lei, Melba era già la stella di un programma radio locale. A metà degli anni ’40 con la sua musica distrusse una barriera fino ad allora mai oltrepassata, diventando la prima donna a suonare il trombone in una big band, entrando nel super ensemble guidato da Dizzie Gillespie, dove duettò con un collega d’eccezione come John Coltrane, forse il più grande sassofonista della storia. Da Dexter Gordon a Cont Basie passando per Billie Holiday, Melba Liston suonò e registrò con alcuni dei musicisti più influenti dell’epoca, regalando il suo stile unico alla storia del jazz e del bebop.
Millo Castro Zaldarriaga
L’Avana, anni ’30: il presidente-dittatore Machado chiudeva le università per soffocare le proteste degli studenti e, in quegli stessi giorni, una bambina lottava contro il padre che, in linea con le leggi cubane, proibiva alla figlia di realizzare il suo sogno: suonare le percussioni. Metà cinese, metà cubana e africana, Millo Castro Zaldarriga si ribellò alle leggi della famiglia come al veto imposto a un Paese dove tutte le orchestre erano rigorosamente maschili. Timpani, congas e bongos riuscirono a convincere il padre di Millo del talento unico della figlia, talento grazie cui la ragazza riuscì a formare la prima band completamente femminile di Cuba insieme alle sorelle, le Anacaona. Una serie di concerti a New York, il successo internazionale e poi l’oblio, dopo che il sogno di esportare la musica cubana nel mondo – e in particolare la musica femminile cubana – fu infranto dall’arrivo della Rivoluzione.
Miriam Makeba
La storia di Miriam ‘Mama Africa’ Makeba racconta della musica usata come arma per sconfiggere l’apartheid, legge che negli anni ’30 anni devastava il Sud Africa e Johannesburg, città in cui Miriam viveva. Intolleranza, violenza, discriminazioni: Miriam denunciava le vessazioni cui era obbligato il suo Paese, lo faceva attraverso la musica, prima con le sue Skylarks, poi da solista. Cantante dalla voce incredibile e allo stesso tempo invincibile oppositrice politica anche quando, nel 1963, dopo aver portato la sua voce davanti alle Nazioni Unite, testimoniando contro le ingiustizie dell’apartheid, il governo sudafricano rispose bandendo i dischi di Miriam Makeba e condannandola all’esilio, invalidandole il passaporto. Miriam continuò il suo ruolo di attivista negli Stati Uniti e cantando il suo impegno in giro per il mondo fin quando, nel 1990, il presidente Nelson Mandela convinse Makeba a rientrare in Sudafrica, liberata dall’apartheid. Per il resto della sua vita ‘Mama Africa’ mise in musica la protesta contro l’ingiustizia: morì la notte del 9 novembre 2008 a causa di un attacco cardiaco a Castel Volturno dove, solo qualche ora prima e nonostante forti dolori al petto, era salita sul palco per un concerto contro la Camorra, colpevole dell’uccisione di sei migranti africani.
Sylvia Robinson
Uno dei luoghi comuni più celebri e allo stesso tempo più erronei della musica definisce l’hip hop come un genere maschile e maschilista, luogo comune che quindi ignora artiste come Queen Latifah, Lauryn Hill, Salt-n-Pepa e soprattutto Sylvia Robinson, autrice di un brano simbolo dell’intero genere musicale, quella Rapper’s Delight del 1979 portata al successo dalla Sugarhill Gang – band creata dalla stessa Robinson – e pubblicata per la Sugar Hill Records, etichetta che, manco a dirlo, era nata sempre da un’idea di Sylvia. Con Rapper’s Delight Robinson fece scoprire al mondo l’hip-hop, prima di allora relegato lontano dai riflettori, spinto negli anni successivi da Grandmaster Flash e i suoi Furious Five, padrini del genere e scoperti proprio da Sylvia Robinson che fu la prima a firmarli per la sua label. Ma il contributo alla musica di Robinson non si limita certamente alla sola Rapper’s Delight giacchè, fin dai primi anni ’60, Sylvia è stata una pioniera essendo all’epoca una delle pochissime donne a produrre, scrivere e comporre musica; un esempio? Pillow Talk, scritta inizialmente per Al Green – ma rifiutata dal cantante perché considerata “troppo sensuale” – portò Sylvia a conquistare il terzo posto delle classifiche americane.
Delia Derbyshire
Narra la leggenda – ovviamente veritiera – che il compositore australiano Ron Grainer avesse consegnato alla BBC le bozze per quel che sarebbe diventato il tema iconico di Doctor Who. Se non fosse che quegli accenni sonori furono presi e trasformati dalla musicista Delia Derbyshire, giovane apprendista assistente di studio in un mondo rigidamente maschile come quello della BBC degli anni ’60, ma inventrice di un suono prima di allora mai ascoltato. Il risultato fu talmente stupefacente che lo stesso Grainer rimase incredulo una volta messo davanti al lavoro finale, chiedendo se fosse realmente lui l’autore della musica, “In parte” rispose Derbyshire. Una traccia, la sigla di Doctor Who, diventata leggenda non soltanto per il successo della serie tv, ma perché considerata una pietra miliare della musica elettronica essendo una delle prime sigle televisive creata interamente con mezzi elettronici. La sua versione di Doctor Who è stata coverizzata infinite volte ed è tuttora ritenuta la canzone guida nella musica sperimentale; peccato che, per volere della BBC, a Derbyshire non fu assegnato nessun credito per aver creato un brano che distrusse i confini tra tv di massa e musica elitaria.
Carole King
In un mondo tradizionalmente dominato dagli uomini come quello autorale, Carole King rappresenta una stella fissa, un nome che regalò alla musica alcuni successi divenuti epocali. Tra gli anni ’60 e ’70, in cui ci fu un boom di interpreti femminili, da Joni Mitchell a Dolly Parton passando per Carly Simon, è enorme il debito che ognuna di loro deve a Carole King, un’artista sempre schiva dalle luci dei riflettori ma, nonostante ciò, capace di lasciare un marchio indelebile nella musica. Non è un caso, infatti, che gli allora esordienti Beatles cercarono ispirazione proprio nello stile cantautorale creato da Carole King insieme al marito Gerry Goffin, da cui si separerà dolorosamente nel 1968, mettendo in musica le sue lacrime nella straziante It’s Too Late, canzone cardine di un album senza tempo come Tapestry. Nella sua carriera di Re Mida del pop a stelle e strisce, King ha composto per i maggiori interpreti che all’epoca dominavano le classifiche USA – dai Carpenters ai Monkees, dagli Animals a Rod Stewart fino a un’icona femminile come Aretha Franklin – scrivendo insieme alla musica anche la storia quando, con Will You Love Me Tomorrow pensata per le Shirelles, portò per la prima volta una girl band afroamericana al primo posto nella hit parade.
Sonita Alizadeh
“Lasciami sussurrare, così che nessuno senta che parlo di ragazze in vendita”, raccontava Sonita nella sua Brides For Sale, la canzone con cui diede voce alle oltre 37.000 bambine che ogni giorno sono costrette dalle loro famiglie a sposare uomini molto più grandi di loro, la stessa sorte a cui Sonita riuscì a sfuggire grazie al suo rap. Scappata con la famiglia dall’Afghanistan dove, a soli dieci anni, era stata promessa in moglie, Sonita iniziò a mettere in rima la sua storia, ispirandosi a Eminem e alla rap-star iraniana Yas, raccontando dei conflitti e del regime talebano da cui era scappata, della condizione di rifugiata così come del lavoro minorile cui fu costretta per sopravvivere mentre inseguiva il sogno di diventare una cantante rap. Tuttavia, a sedici anni, Sonita fu venduta a un uomo da sua madre, anche lei vittima della tradizione delle spose bambine e di cui la ragazza urlò al mondo nella canzone che la portò a guadagnarsi l’attenzione di tantissime organizzazioni umanitarie e con la quale, allo stesso tempo, si salvò dal matrimonio combinato. Oggi Sonita vive e studia negli Stati Uniti, dove è libera di andare a scuola e fare rap. Con Brides For Sale la sua voce ha fatto il giro del mondo, ed è grazie alla sua musica che Sonita ha fondato una sua organizzazione, Sonita’s dream, con l’obiettivo di supportare economicamente quelle famiglie che, come la sua, si trovano costrette dalla povertà a vendere le proprie figlie a un’usanza disumana.