È bizzarro notare come nonostante il passare del tempo, nonostante rimanga statica a una trafila discografica che prevede due uscite l’anno, nonostante perduri la bipartizione che esibisce opinabili brani inediti da un lato e rivisitazioni (più o meno) storiche dall’altro, nonostante il modus operandi così chiuso e immobile si protragga da 75 dischi, nonostante tutto, è bizzarro come non cambi mai l’atteggiamento di chi da Mina questi dischi li riceve, li ascolta, li vive e ancora continua ad acquistarli.
Già, perché provando a compilare una piccola classifica delle “perle minori” della Tigre di Cremona, a patto che esistano, che non sia tutto magnifico, dai giorni degli Happy Boys ai vocalizzi per la Tim, si rimane sorpresi della pressoché totale assenza di recensioni negative sulla rete – e ancora meno sulle riviste. Qualora l’incauto critico si appropinqui a mostrare qualche raro dubbio sul contenuto di un’opera, la sua voce si sgretola, cambia registro, si morde la lingua, finendo per plaudire comunque Qualcosa, fosse il solo fatto che Mina esista anzichenò.
Neanche i dati di vendita ci sono d’aiuto. Il diagramma calante dipende dagli universi musicali che nascono, crescono e muoiono, mentre dal suo eremo in Svizzera la Nostra Signora (che l’Italia sia una Repubblica fondata su Mina e Battisti lo sappiamo tutti, no?) continua imperturbabile nella sua soggettiva sul mondo della musica. 200 mila copie nel 2018 non saranno le 900 mila di quaranta anni fa ma in quanti possono vantare questi numeri oggi? Così, tolte le aspettative frustrate di chi vorrebbe vederla apparire dal vivo (superiori anche a quelle di chi attende per una reunion degli Smiths), l’ansia vana di chi vorrebbe qualcosa di più attuale per alimentare la storia, l’invidia molesta per questi successi ripetuti in totale dileggio delle regole del gioco di chi osserva, resta la pura e semplice idolatria.
La scelta dei titoli per questa hornbyniana classifica è stata più difficile del previsto non solo per tutti i motivi appena detti, ma anche per la quantità di titoli secondari, resi interessanti da altri fattori che ne aumentano l’appeal collezionistico: si va dal Ep Mina del 1968, uscito solo su cassetta in una confezione simile a quella dei fiammiferi svedesi, alla prima edizione di Ti Conosco Mascherina con copertina apribile e poster neanche fosse un disco dei Jethro Tull, alla copia della lettera che Mina indirizzò a Battisti, contenuta nel triplo Lp Paradiso (Lucio Battisti Songbook), definitivo (speriamo) ultimo cofanetto che racchiude tutte le canzoni di Lucio che Mina ha inciso fin’ora. Tolti questi, la lista che trovate è quindi un mix di titoli considerati a torto minori al momento della loro uscita o dimenticati nel tempo, destinati a rimanere nell’orbita degli appassionati piuttosto che ambire alle vette di notorietà degli altri. Si tratta di dieci dischi da riscoprire nei quali la genialità è più o meno evidente ma comunque presente, che la si colga in due tre pezzi o sia dominante o se ne avverta la presenza a livello d’ispirazione e attitudine.
10Kyrie (1980)
Il primo grande flop discografico di Mina dal punto di vista delle vendite. Soltanto 350 mila copie rispetto alle vagonate ottenute dai dischi precedenti. Il doppio parte 9° in classifica e arriva 33°, stranissimo per una abituata a stare sempre in pole position come Mina. Colpa di tutto, viene attribuita dai più superstiziosi alla copertina che non ritrae, come solito, Mina ma il figlio Massimiliano Pani; quelli più spietati al proseguo della collaborazione artistica con lo stesso Pani, allora neanche maggiorenne e ritenuto quindi troppo acerbo o inadatto a lanciare assist a una mamma così ingombrante; nel mezzo resta un album tra i più snelli di Mina (neanche 40 minuti a disco) con una cover di She’s Leaving Home che pare ottenne i complimenti di John Lennon poco prima di venire ucciso. Il Κύριε ἐλέησον trasmutato in Quattr’ore ‘e Tiempo è la dimostrazione di un’artista a cui (oramai) qualsiasi cosa è concessa.
9Sorelle Lumière (1992)
Più che un disco, doppio anche questo, una dichiarazioni di intenti: le canzoni contano fino a un certo punto, il lavoro grosso lo fa la voce. Ed è così che appare in una compilazione di 20 tracce che lasciano stupiti nel peggiore dei modi possibili. Tolte Cry Me a River di Julie London e I Ricordi della Sera dei Cetra, due pezzi una spanna sopra, per il resto sembra quasi che Mina, con vezzo provocatorio, voglia sfidare l’assurdità del repertorio per far risaltare la differenza che fa la sua voce. Tra le cover spiccano in tal senso quella di Scialpi e degli Spandau Ballet, mentre tra gli inediti tre canzoni che Pani aveva scritto nel suo ignorato debutto solista e di cui Come Stai diventata un classico istantaneo. Ma in fondo è tutto chiaro fin dalla veste grafica del disco: Mina che proietta Mina, ed è Mina che guarda Mina proiettata da Mina. Sorelle Lumiere è il personale Cantare la Voce di Anna Maria Mazzini.
8Finalmente ho Conosciuto il Conte Dracula (1985)
Titolo improbabile mai spiegato a fondo dalla diretta interessata, questo disco è archiviato da tempo come “quello della canzone con Cocciante”. Questione di Feeling a parte, e tolta anche la solita psicotica pletora di cover (si va dai The Knack a Claudio Baglioni questa volta, passando per il solito Lucio Battisti), resta un sorprendente album di inediti in cui scoprire una Mina sublime e altera come poche altre volte. Mio Di Chi è una girandola di pensieri contorti e deliranti meravigliosamente interpretati come da un’insonne, Nei Miei Occhi sbuffa come le sigarette consumate all’interno di un night e Mi Mandi Rose non lascia neanche un posticino per quell’amore salvifico che in questa occasione stanca e basta. Allora viene da domandarsi se il titolo non sia da parafrasare come la conoscenza della parte più crepuscolare, che forse è il vero cipiglio in una discografia di solito unidirezionale.
7Pappa di Latte (1995)
Che strano pensare che nell’anno in cui il mondo scopriva fior fiori di dischi, Mina in Italia se ne usciva con quello che è considerato all’unisono “il peggiore album” della sua carriera. Pappa di Latte soffre il pesantissimo fardello lasciato da Canarino Mannaro e Mina Canta i Beatles, roba da un milione di copie vendute, ai quali, vennero affiancate non una, non due, ma ben tre raccolte nello stesso anno. Il ferro va battuto finché è caldo. Ne viene da sé che Pappa di Latte è il solito buon disco di Mina che raggiunge vette notevoli con Almeno Tu nell’Universo e Di Vista, che provoca con il medley A Night in Tunisia / Penso Positivo / Copacabana e Sulamente pe’ Parlà, stupisce nel bene e nel male con More Than Words rifatta con la figlia e Donna Donna Donna. Probabilmente era solo mercato a volere un’ora d’aria. Vi basti pensare che a rubargli il primo posto in classifica fu Ambra Angiolini.
6L’Allieva (2005)
Pare che Mina abbia rinunciato, all’apice della carriera, a un tour in America con The Voice. Si dice che Frank Sinatra in persona l’abbia invitata ma lei, gentilmente, abbia rifiutato. Per paura di volare, per paura del confronto, per paura di scontrarsi con un mercato estero. Per paura, insomma. Non c’è nulla di male, ad avere paura. Dopo 35 anni da quella proposta, Mina rende omaggio allo zio Frankie con questo unico (anche nel formato) disco la cui grande peculiarità, oltre l’indiscutibile valore delle canzoni scelte, è quell’aurea di rispetto che traspare dalle quattordici tracce incluse. Mina affronta come mai l’interpretazione di brani non suoi con misura e parsimonia, ripulendo il suo stile da ogni eccesso: Mina a tratti sussurra, sospira, sogna, ridimensionando palesemente il suo ego da 4 ottave e 3 toni. Vedere questo disco nelle ceste degli Autogrill a fianco a 100 Successi USA fa un po’ male al cuore.
5Sulla tua bocca lo dirò (2009)
Alla fine è successo. Nel 2009 Mina fa uscire un disco dove reinterpreta 12 arie di musica classica. Apriti cielo. Solo a sentirlo si sprecano i travasi di bile di tutti coloro che da sempre la considerano un’egocentrica e irresponsabile. Alcuni tra gli altri interpretano invece questa scelta come il finale colpo di teatro di una cantante oramai agli sgoccioli, come una Barbara Streisand di casa nostra che si appresta a finire la carriera in qualche hotel di Las Vegas, con un repertorio oramai tendente al kitsch. Infatti vende pochissimo. Ci resta invece in mano un disco senza eccessive pretese barocche che riesce a non diventare pantomima. La scelta dei brani predilige intelligentemente Giacomo Puccini, il più pop dei nostrani, per poi dare spazio a Giordani, Albinoni e il Novecento di Bernstein, Gershwin, Cilea e Piazzolla, il più riuscito. Tutti i brani vengono rielaborati in forma-canzone, nel senso più ampio del termine.
4Maeba (2018)
“Sono un outsider ma mi piace molto Mina”. No, a parlare non è Manuel Agnelli bensì Anohni, alias Antony Hegarty. Peccato lo disse nel 2013 quando Mina pubblicò solo una misera raccolta natalizia (più interessante piuttosto la Piccola Strenna di tre anni prima). Maeba, uscito tra un disco con Celentano che gli ruba pure un brano (Quando la Smetterò) e un box per Battisti, quante possibilità ha di essere notato? Invece, tra un Piazzolla e un Elivis jazzato, una traccia fantasma, sprazzi d’elettronica e un duetto con Paolo Conte, Mina si rivela come l’aliena à-la Bjork periodo All Is Full Of Love della copertina. Ferma in un suo universo apparentemente chiuso, estraneo alle epoche e alla storia, dove capta segnali (anche fuori tempo massimo) e li ritrasmette tradotti nel suo linguaggio. “E amo l’italiana Mina”. A parlare è sempre Anohni, stavolta intervistato un mese dopo l’uscita di Maeba.
3Dalla Terra (2000)
Anno Domini 2000. I Maya (o chi per loro) annunciano la fine del mondo. I più tecnologici temono il Millennium Bug. Mina fa uscire l’album più difficile della sua carriera. Un mix di 12 tra arie sacre e canti religiosi che fanno allarmare i fan e morire, di noia probabilmente, tutti gli altri. Nato, a quanto si dice, già negli anni Sessanta e realizzato nel corso del tempo con l’aiuto sia di un teologo che di un esperto di canti gregoriani, il disco creò anche un certo clamore dalle parti di San Pietro, dove ci si apprestava al Giubileo. Soprattutto per la sua volontà di coniugare la cristianità di Magnificat, Dulcis Christe e Ave Maria varie alla paganità del cantato languido e a suo modo sacrilego di Mina. Non siamo certo ai livelli di Marilyn Manson ma, a sentire anonimi religiosi del XII secolo rifatti come una ballata jazz o un brano del primo Mike Oldfield, alle nostre latitudini sia chiaro, è quasi un gesto punk.
2Dedicato a Mio Padre (1967)
Il primo disco pubblicato dalla sua etichetta, nasce dall’esigenza di crearsi un repertorio più ricercato. Infatti è una vetta dal punto di vista artistico ma sfortunato nelle vendite. Il Dusty In Mephis di casa nostra, come il bellissimo disco di Dusty Springfield che non brillò nelle classifiche e fu riconosciuto solo tempo dopo. Registrato anche questo in esilio, a Lugano, e quasi interamente in presa diretta, per pensare all’assurdità del suo insuccesso, basti pensare che tra i brani contiene la prima versione de La Canzone di Marinella rifatta da Mina. E il resto, sia chiaro, non è da meno. Soprattutto The Man that Got Away, presa dalla colonna sonora dell’originale A Star is Born del 1954, Lazy River e Jonny Guitar che, senza nulla togliere al resto, esplorano la ballata statunitense in modo inappuntabile. Archi, fiati, batteria in scioltezza e Mina che dimostra a tutti perché americani illustri e non si siano innamorati di lei.
1Mina Canta O Brasil (1970)
Difficile da scegliere nell’antologia di dischi cantati in lingua originale da Mina uno che possa piacere a tutti. Perché, mutevole nelle forme delle sue scelte musicali ed estranea a ogni dictat, la regina di Cremona è passata dall’inglese di Mina For You allo spagnolo di Espana mi Amor non disdegnando – qua e là – il tedesco, il giapponese e altre lingue più desuete. Questo disco in portoghese però riesce dove falliscono molti altri. E’ impossibile restare freddi davanti a questa raccolta libera, sensuale e femminile di undici tracce prese in prestito alla culla brasiliana, a partire dai suoi esponenti meno noti fino ad abbracciare i vari Chico Buarque, Vinicio de Moraes e Roberto Carlos. All’epoca e in seguito il tropicalismo qui contenuto è stato descritto come “popolano”, “reboante di fiati, chitarre e percussioni” e “privo di ricami e di svolazzi”. Come se tutto questo possa essere considerato un difetto.