L’Italia progressive non è solo quella del rock classicheggiante di PFM, Banco, Orme. È un contesto ipervariegato nel quale si muovono realtà tra le più disparate e creative. Il prog è di per sé un calderone che accoglie diversi generi e li mixa in maniera armonica, ma spesso succede che uno degli stili prenda il sopravvento. Nel caso dei gruppi sopra citati è la musica classica sostenuta dalle vigorose pulsioni del rock, ma dopo la fortunata scuola sinfonica è il jazz l’altro stile che viene maggiormente a galla.
Già dalla seconda metà degli anni ’60 il jazz è andato incontro a una grande rivoluzione. C’è chi ha deciso di eliminare ogni paletto e si è buttato nel concepire le forme assolutamente libere e spontanee del free, c’è chi ha provato ad ammodernarlo, a fonderlo con altri generi. Il tutto con buona pace dei critici più oltranzisti. Il jazz, come il rock e la società tutta, in quello scorcio di anni ’60 è in piena evoluzione e nessun critico può fermare un qualcosa che sta letteralmente esplodendo sui palchi di tutto il mondo.
Il gioco è in apparenza semplice: sostituire lo swing con il battito regolare del rock, un solido 4/4 ad accompagnare i temi e le improvvisazioni. Col tempo le cose si complicano, il ritmo si colora, a volte cambia, gli strumenti elettrici si arricchiscono di effetti, le atmosfere si fanno mutevoli. Chissà a quanti benpensanti è venuto un colpo dopo avere posato la puntina su A Silent Way, uno dei massimi capolavori di Miles Davis. Ed è proprio il sempre inquieto Miles a fare da testa di ponte alla rivoluzione jazz-rock che da lì a poco vedrà la nascita di band stellari come Weather Report, Return to Forever e Mahavishnu Orchestra, oppure fornirà nuove opportunità di carriera a pezzi da novanta già conclamati come Herbie Hancock.
L’influenza di questi musicisti non tarda a fondersi con le trame del rock progressivo. Non è difficile avvertire la componente jazz nei King Crimson o nei gruppi appartenenti alla cosiddetta scuola di Canterbury. Questi ultimi in particolare riescono ad ampliare ancora di più la tavolozza jazz inserendolo tra le loro scorribande psichedeliche (Soft Machine, Matching Mole) o pop (Caravan). È ancora un modo diverso di plasmarlo e traghettarlo verso il futuro.
In Italia il nuovo jazz comincia a piacere ai giovani, perché ha ritmo, è creativo, spesso è anche il viatico per la rivoluzione. Del resto è una musica che nasce dal malcontento del popolo afroamericano, dalla voglia di andare contro gli schemi della musica bianca e borghese. Quale stile meglio del jazz-rock, quindi, specie quello più free e creativo può contribuire a infiammare gli animi rivoluzionari?
Nascono band su band, dischi su dischi, nella maggior parte dei casi ottimi, in altri essenziali. Tanto che è stato veramente arduo sceglierne solo 10 e metterli in classifica. Ancora una volta ci si stupisce di quanto l’Italia musicale degli anni ’70 sappia servirsi di materiale proveniente da altre zone del mondo per farlo proprio. Come nel prog sinfonico anche in quello di derivazione jazz si assiste a un’esplosione di originalità, i riferimenti si sentono, ma il tutto è filtrato dalla nostra particolare sensibilità mediterranea. Il tutto per creare qualcosa di nuovo, che nel tempo farà scuola e ancora oggi è guardato con rispetto e ammirazione.
10“Free Love” Kaleidon (1973)
I Kaleidon nascono dalle ceneri degli sfortunati Free Love, che nel 1972 subiscono la perdita di due componenti a causa di un incidente d’auto. Uno dei sopravvissuti, il tastierista Stefano Sabatini, decide nel 1973 di cambiare nome alla vecchia band, ma di omaggiarla nel titolo dell’album. Free Love è totalmente strumentale, con un lavoro d’alta scuola da parte del sassofonista Massimo Balla e di Sabatini (destinato non a caso a diventare uno degli astri del jazz italiano) che fa faville al piano elettrico.
9“Dedalus” Dedalus (1973)
Qui siamo dalle parti dei Soft Machine più jazzosi. I piemontesi Dedalus però ci mettono dentro anche un bel carico di avanguardia, con ampi momenti rarefatti e minimalisti a base di effettistica varia. Quando invece lanciano la ritmica hanno la particolarità di un suono ovattato, nel quale i vari assolo di rito sembrano amalgamarsi in una miscela onirica e conturbante. Pubblicato dalla Trident di Maurizio Salvadori, il primo album si fa ricordare anche per la particolare copertina con “teste a orologi”. Astratta come la musica.
8“Rumore rosso” Venegoni & Co. (1978)
Gigi Venegoni è il chitarrista degli Arti & Mestieri che nel 1978 mette in piedi un suo combo, all’interno del quale girano un bel numero di ospiti. Rumore rosso è l’esordio, con il chitarrismo eclettico di Venegoni e un suono jazz-rock ancora più marcato rispetto al gruppo madre. Il chitarrista e i suoi ci cacciano dentro però anche tutta una serie di deliziose ascendenze mediterranee. Nella band c’è anche un certo Ludovico Einaudi, destinato a grande fortuna qualche anno più tardi.
7“Agorà 2” Agorà (1976)
Il secondo album degli anconetani Agorà è dotato di un’atmosfera rilassata, malinconica e misteriosa, a ricordare i primi vagiti discografici dei Weather Report. La musica scorre in molte parti melodica e in questo si traccia la differenza rispetto ai colleghi americani, più free nelle loro scelte (almeno agli esordi). Da segnalare negli Agorà l’interazione tra i musicisti che suonano senza protagonismi eccessivi e con grande rispetto reciproco, tutti al servizio della musica.
6“Vimana” Nova (1976)
Supergruppo con dentro gente come Corrado Rustici (chitarrista dei Cervello), Elio D’Anna (fiatista degli Osanna) e Renato Rosset (tastierista dei New Trolls Atomic System), i Nova si caratterizzano per un suono furioso a base di un jazz-rock (con belle venature funk) di stampo tipicamente americano, quello che si è poi trasformato nella cosiddetta fusion. Il secondo album Vimana ha dentro equilibrismi pazzeschi da parte di Rustici (in seguito produttore di successo per Zucchero ed Elisa, tra gli altri) e ospitate di gran lusso come Narada Michael Walden alla batteria e addirittura Phil Collins alle percussioni.
5“Sconcerto” Il Baricentro (1976)
Il Baricentro nasce dalle ceneri dei sinfonici Festa Mobile (consigliato il bel Diario di viaggio della festa mobile, 1973), con ancora evidenti influenze da parte di Weather Report e Mahavishnu Orchestra, ma con un calore tutto mediterraneo che li rende una delle band jazz-rock più attente al lato melodico. Gustosissimi i leggeri aromi funk e addirittura disco che caratterizzano il loro esordio.
4“Napoli Centrale” Napoli Centrale (1975)
Con James Senese a offrire una folle miscela di jazz-rock con elementi funk e testi in napoletano, l’omonimo esordio dei Napoli Centrale (con un americano e un inglese in formazione: Mark Harris al piano e Tony Walmsley al basso) ha un gusto del tutto particolare già dalla copertina che raffigura i componenti della band che camminano nel terreno fangoso, dopo la pioggia. La musica è esattamente così: di terra, umidità e fango, con più di un occhio attento allo sfruttamento e al malessere di operai e braccianti. Una forza unica.
3“La valle dei templi” Perigeo (1975)
Il Perigeo sta nell’olimpo dei grandi nomi del jazz italiano. Il quarto album della band è quello della maturità, nel quale la perizia strumentale di Giovanni Tommaso, Franco D’Andrea, Bruno Biriaco, Claudio Fasoli e Tony Sidney è messa a disposizione di una serie di composizioni belle e inafferrabili, con temi che rimangono subito stampati nella mente, un gran lavoro della sezione ritmica, mai prima così incalzante, labirinti strumentali e assoli che vanno ben oltre il protagonismo dei singoli per tessere un fitto dialogo tra le parti.
2“Arbeit Macht Frei” Area (1973)
Gli Area del primo album sono una roba da urlo. Per quei pochissimi (spero) che ancora dovessero ignorarli: puntina sul disco, la voce di una giovane donna in una poesia egiziana, poi è subito Luglio, agosto, settembre (nero), e la sua melodia macedone, con il jazz, il free, l’avanguardia, il pop addirittura. Con tutto il bendidio possa esistere in cinque musicisti che non suonano semplicemente, riescono ad andare oltre il suono e la commistione tra i generi, sono un magma unico di rabbia, inventiva e bellezza. Poi la voce di Demetrio Stratos…
1“Tilt (Immagini per un orecchio)” Arti & Mestieri (1974)
Se è di jazz-rock progressivo che si parla, Tilt non può che andare dritto in vetta. Mai infatti come nell’esordio dei torinesi Arti & Mestieri l’equilibrio tra le diverse sfumature che il prog-jazz ha saputo mettere in campo è stato così perfetto. Tilt è fatto di equilibrismi di stampo Mahavishnu e di oasi crimsoniane con tanto di Mellotron in evidenza, con i brani legati tra loro a formare una lunga suite nella quale si perde la concezione di spazio, tempo e stili. In questo senso Tilt è la quintessenza stessa della libertà di cui il jazz si fa da sempre portatore, di ciò che vuole dire essere realmente progressive.