Il 1969 è stato uno degli anni più entusiasmanti della storia della musica leggera (e non). Vista l’impossibilità di scegliere fra solo 10 dischi, abbiamo deciso di estendere la classifica a 20 titoli, per quanto ancora limitati e insufficienti a descrivere la proporzione di bellezza che si è raggiunta in quei dodici mesi. Praticamente ogni disco è un must have, un passaggio obbligatorio per ogni vero appassionato di musica.
20. “Trout Mask Replica” di Captain Beefheart
Cominciamo con uno di quegli album che si vede in tutte le classifiche ma che spesso non rimane altro che una copertina già vista, esattamente come Captain Beefheart è spesso solo un nome accostato a quello di Frank Zappa nei discorsi musicali da baretto. Trout Mask Replica, che vede la luce grazie anche a un’opera di mecenatismo – e non solo – dell’amico Zappa Beefheart al tempo viveva grazie alla paghetta dei genitori), lascia piena libertà a tutti i musicisti che vi partecipano. Il disco è tuttora così innovativo e indecifrabile che abbiamo pensato a lungo se inserirlo in una classifica di musica leggera, perché probabilmente meriterebbe di aver spazio in contesti più vicini alla musica colta.
19. “The Band” di The Band
Se The Band divenne immediatamente nota grazie al primo album che conteneva alcuni inediti di Bob Dylan, già condizione più che sufficiente per vendere copie nel 1969, fu il secondo album ad offrirne una fotografia ancora più chiara: una band bucolica e tradizionale, in epoca di rotture epocali e di hippie. Una musica umile e un po’ conservatrice, meravigliosamente arrangiata e impacchettata, sorprendentemente amata trasversalmente in tutti gli Stati Uniti.
18. “Hot Buttered Soul” di Isaac Hayes
Prima del terribile insuccesso del suo primo album, pareva impossibile che Isaac Hayes potesse diventare qualcosa di più che un session-man, e invece per una serie di circostanze fortunate rientrò in studio due anni dopo con alcuni dei migliori musicisti della Stax Records, pretendendo anche piena autonomia artistica. Questo disco scardinò tutte le regole che fino a quel momento avevano influenzato le produzioni soul dell’epoca, con pezzi molti lunghi ed elaborati, e benché solo uno sia a firma Hayes, il lavoro è un tale capolavoro di produzione e di arrangiamento che è da sempre considerato uno dei migliori album neri della storia.
17. “Jorge Ben” di Jorge Ben
Una delle figure di maggior successo del tropicalismo, movimento brasiliano che mescolava bossa nova, rock e psichedelia, è Jorge Ben Jor, che in occasione di questo magnifico album omonimo si lancia in una festa tropicale, pur non lasciandosi prendere troppo dalla sbornia psichedelica che aveva colpito alcuni dei suoi connazionali, lasciando che le canzoni servano a loro stesse.
16. “Green River” dei Creedence Clearwater Revival
Impossibile non citare in questa classifica i CCR che nel 1969 uscivano con ben tre album rimasti nell’epidermide della cultura rock americana, forse superati solo dall’enorme successo di Cosmo’s Factory uscito l’anno successivo (controllare per credere). Forse sarebbe stato indifferente scegliere fra Bayou Country, questo Green River e Willy and The Poorboys, dato che la forza di John Fogerty non è certo l’originalità quanto piuttosto la sua unicità estrinseca, la sua cruda voce in quello splendido bilico fra blues, folk e cajun della Louisiana.
15. “Five Leaves Left” di Nick Drake
Oggi tutti amiamo Nick Drake, ma all’epoca la situazione era abbastanza diversa. In questo suo esordio Drake era ancora uno studente di Cambridge: l’approccio teneramente naif, ma anche già saggiamente ermetico, metaforico ed evocativo. Per alcuni, uno dei migliori album folk britannici di tutti i tempi.
14. “Stand!” degli Sly and the Family Stone
Una rivoluzione su tutti i fronti quella di Sly and The Family Stone, il cui leader Sly Stone aveva dato le caratteristiche sovversive scegliendo una formazione mista: uomini e donne afro-americane insieme a strumentisti “bianchi” che proponevano una musica gioiosa, ballabile e un po’ hippie in linea con il clima libertario che si respirava a San Francisco all’epoca.
13. “Caetano Veloso” di Caetano Veloso
Caetano Veloso è uno di quei nomi che a distanza di anni non perde il proprio potere evocativo, nonostante per alcuni la sua produzione sia abbastanza ignota (parliamo in particolare dei più giovani). Questo secondo omonimo album – ne farà tre consecutivi – è un po’ una sorta di best of dell’intero movimento tropicalista brasiliano.
12. “Arthur (Or the Decline and Fall of the British Empire)” dei Kinks
Strana l’eredità dei Kinks, idolatrati da molti, sottovalutati da alcuni che li piazzano su un gradino leggermente più basso rispetto ai mostri sacri della musica degli anni ’60/’70. Ci troviamo di fronte a un bizzarro concept pseudo-patriottico su un giovane britannico che si trasferisce in Australia in cerca di fortuna. Ovviamente le cose non andranno come spera il protagonista. Questa è una delle tante gemme sparse nelle carriera dei fratelli Davies.
11. “Everybody Knows This Is Nowhere” di Neil Young & Crazy Horse
Il primo grande album di Neil Young, prodotto da David Briggs e il secondo della sua splendida carriera, è forse il più innocente dei suoi capolavori. In questo disco, che è un meraviglioso mix fra folk e country rock, suonato con una ruvidità abbastanza inedita per l’epoca, troviamo alcuni dei brani più indelebili della carriera di Young. E non è un caso che sia anche il primo accompagnato dai Crazy Horse come backing band.
10. “Tommy” degli Who
Tommy è uno di quegli album per cui è molto difficile separare la musica che contiene dal valore simbolico del disco stesso, diventato la rock opera per eccellenza. La musica è in bilico fra le origini ribelli, sbandate psichedelico-progressive già presenti nel precedente Sell Out e una nuova attitudine magnificente e pomposa, al limite del tradimento artistico. In particolare è il trionfo di Pete Townshend, capace di dimostrare in modo definitivo di non essere solo un banale distruttore di chitarre.
9. “Songs from a Room” di Leonard Cohen
Songs from a Room probabilmente non è il titolo più noto di Leonard Cohen, ma certamente è parte di un periodo meraviglioso e fertilissimo per il cantautore/poeta (lui sì, anche di professione), che in cinque anni dà alle stampe tre dei più begli album cantautoriali del secolo, in mezzo fra l’esordio Songs of Leonard Cohen e Songs of Love and Hate. Mitico, elegiaco ma incredibilmente intimo e personale, molto più che un semplice album di passaggio fra due capolavori.
8. “Hot Rats” di Frank Zappa
Il disco più riconosciuto di Zappa, uno di quegli artisti che si nomina spesso ma si ascolta troppo, troppo poco. Una delle menti più libere e ribelli della musica “di consumo” del ‘900, convinto nella sua opera di creare una musica “totale”, onnicomprensiva, senza limiti di genere, senza timori e freni. La formazione, estemporanea anche nelle session, in cui si alternavano musicisti senza regole precise (se non quelle di Zappa), comprende alcuni tra gli artisti più illustri dell’epoca: Captain Beefheart, Don Sugarcase Harris, e soprattutto Ian Underwood, la vera arma segreta dell’album, i suoi fiati sono un po’ il collante dell’ironica follia musicale che è Hot Rats.
7. “The Stooges” degli Stooges
La quantità di eccellenti dischi rock usciti nel 1969 mostra come in quegli anni fossero in molti a cercare una nuova formula per riproporre il rock. C’era chi cominciava a rifarsi alla musica colta, c’era chi provava ad andare più veloce, chi inseriva elementi musicali da altre culture. Gli Stooges si preoccupavano molto meno e dimostrano per la prima volta che se c’è qualcuno che può rivoluzionare la musica sono i non musicisti, quello che poi semplicisticamente sarà chiamato “punk”, con tutta la moda che ne è conseguita. Il primo album degli Stooges è semplice, aggressivo, seducente. In un epoca ancora molto legata alla psichedelia hippie, arriva questa band sporca, dura e totalmente fuori di testa.
6. “Led Zeppelin” dei Led Zeppelin
Diciamo la verità, in questa classifica potrebbero starci tranquillamente sia il primo che il secondo disco dei Led Zeppelin, pubblicati entrambi nel 1969 a circa 9 mesi di distanza. Scegliamo questo un po’ per quella dinamica umana che vuole che l’opera prima sia estrinsecamente speciale, un po’ per l’impatto che questo ha avuto su tutto il rock successivo, pensiamo solo a Paranoid dei Black Sabbath, un tentativo di riproporre in musica quella Communication Breakdown che aveva sparigliato le carte del rock del tempo.
5. “Let it Bleed” dei Rolling Stones
Questo disco (come molti altri di cui abbiamo parlato), potrebbe stare tranquillamente sul podio, se non al primo posto. Gli Stones reagiscono musicalmente alla grande alla morte di Brian Jones, e per quanto questo suoni cinico, è esattamente così che sono stati gli anni ’60 e ’70 per Richards/Jagger e tutti gli altri: un’autostrada, o meglio un pericolosissimo rally da fare velocissimi. La loro musica non si è mai fermata davanti a nulla: morti, overdose, rehab, defezioni, alcolismo. Mick Taylor alla chitarra, appena ventenne, sembra il perfetto compagno per Keith Richards, prima che anche lui si faccia travolgere dalla band più pericolosa del mondo.
4. “In The Court of The Crimson King” dei King Crimson
Quante volte avete visto questa copertina? In The Court of The Crimson King, frettolosamente categorizzato come progressive, ammesso che sia veramente parte del genere, ne è sicuramente l’espressione migliore e meno volgare: una magia. A differenza dei tentativi successivi del genere (talvolta eccessivi e testosteronici), qui ancora vive una profondissima anima jazz, un’attenzione per la melodia e anche per l’importanza di alcuni elementi di semplicità che poi spesso saranno messi in secondo piano nei tantissimi tentativi di emulazione di questo capolavoro.
3. “The Velvet Underground” dei Velvet Underground
Da non confondere con The Velvet Underground & Nico, questo è il primo album in cui si può intravedere meglio la capacità poetica di Lou Reed in contesti sonori meno estremi e molto più vicini alla forma canzone. Pale blue eyes è una delle canzoni pop più belle della storia, e in questo album è in eccellente compagnia.
2. “In a Silent Way” di Miles Davis
Per chi ha sempre ascoltato rock, Miles Davis per molti anni rimane un po’ una figurina, una sorta di Dio della musica ma non sai perché, un po’ come Dante al liceo: sai che è importante ma non hai ancora gran parte degli strumenti per capire il perché. Su Miles la strada è chiara, devi avere Kind of Blue, quello è il capolavoro. L’unico dettaglio è che Miles Davis ne ha fatti diversi di capolavori e In a Silent Way è uno di questi. Anticipatore delle tendenze di Bitches Brew, In a Silent Way è l’album più seducente del periodo elettrico del più famoso trombettista del mondo. E per tutti i chitarristi qui ci sono alcune delle parti di chitarra più affascinanti di John McLaughin.
1. “Abbey Road” dei Beatles
C’è ancora chi ama discutere su quale sia la migliore band della storia, quale sia la più influente, arrivando anche a postulare che i Beatles in realtà siano stati solo la rappresentazione più commerciale di un momento musicale coraggioso e variegato, spesso scevro – o quasi – da logiche di mercato. Noi non siamo d’accordo e piazziamo Abbey Road, il loro vero epitaffio musicale (Let It Be, uscito postumo, è in realtà di realizzazione antecedente) al primo posto della classifica, non solo per l’importanza storica ma proprio per la qualità immensa del disco, capace di usare un linguaggio universale. Se si parla di mainstream, non esiste opera più bella e affascinante.