25. Duke Ellington “Ellington at Newport” (1956)
Lo spettacolo non poteva cominciare in maniera più promettente: 4 membri della band, probabilmente ubriachi, non si presentarono ed Ellington suonò la première del jazz festival per ben 12 minuti interi prima di realizzare che non si poteva andare avanti. Ma più tardi durante la serata si ripresentarono in massa e tirarono fuori tutti di casa con uno spettacolo che diede un nuovo significato alla sua carriera. Tutto si concentra su Diminuendo and Crescendo in Blue, un ritmo ballabile di dieci anni prima che rifiorì a Newport in una jam da 6 minuti, con 27 ritornelli, creata dal sax tenore di Paul Gonsalves che ti rimbombava nelle orecchie. Duke gridò a Gonsalves, «Più alto!» e una donna bionda in abito nero si alzò e cominciò a ballare, seguita da tante altre donne. Un mese dopo, Duke era sulla cover del Time. Il bebop faceva sembrare sdolcinata la musica delle grandi band, ma Newport dimostrò che saper fare le cose è saper fare le cose. «Sono nato nel 1956, al Jazz Festival di Newport», dichiarò successivamente Duke.
24. The Quintet “Jazz at Massey Hall” (1953)
«L’atmosfera era abbastanza difficile», ricorda Max Roach, batterista dei Quintet, di quello spettacolo del 1953. «Le persone che c’erano in quel camerino e tutti i loro problemi. Ci sarebbe voluta un intero gruppo di psicologi per poter far funzionare tutto!» C’erano geni, tossicodipendenti, attaccabrighe e stupidi. Il pianista Bud Powell fu portato in un istituto e dichiarato legalmente «incompetent», il sassofonista Charlie Parker e il trombettista Dizzy Gillespie avevano dei precedenti (questa divenne poi l’ultima volta che registrarono insieme), e il bassista Charles Mingus avrebbe potuto menare qualunque persona che provava ad offenderlo. Qui inizia il mucchio selvaggio del bebop, con Parker armato di un sax di plastica preso in prestito. «Era pura spontaneità. Questa era l’aspetto principale di quella serata», dice Roach. «Siamo semplicemente saliti sul palco, e tutto iniziò». Suonarono le versioni definitive degli standard del bop come Night in Tunisia e Salt Peanuts, così come la ballata del successo segnato All the Things You Are. Alla fine della serata il promoter li pagò con le registrazioni dello show, e Mingus finì per registrare nuovamente i suoi assoli prima di pubblicare il tutto.
23. Led Zeppelin “How The West Was Won” (2003)
I Led Zeppelin sono indubbiamente uno dei gruppi più importanti per quanto riguarda le performance live degli anni ’70, ma il loro unico album live di quel periodo, la soundtrack di The Song Remains The Same del 1976, li fotografa in una serata dove sono un po’ più molli del solito. Questa situazione fu risolta finalmente nel 2003 quando Jimmy Page si avvalse di ore di registrazioni dal tour del 1972 della band, e riuscì a riunire questo set killer da 18 tracce. In giro ci sono una miriade di bootleg dei Led Zeppelin, ma nessuno di questi risulta così vivo e pimpante come questo, nonostante a volte abbiano imbrogliato, unendo in un unico pezzo versioni multiple della stessa canzone. Alcuni degli highlights includono una feroce Immigrant Song, una versione di 25 minuti di Dazed and Confused, e una jam da 23 minuti di Whole Lotta Love. «Sono gli Zeppelin al meglio», dice Page nel 2003. «Ogni singolo membro della band è al top della forma. È il momento magico dove subentra il quinto elemento».
22. The Band “Rock of Ages” (1972)
The Last Waltz è l’album live piu famoso dei The Band e vede ospiti di grande portata, il peso della fine di un’era ed il film di Scorsese.
Ciononostante, non è l’album live migliore dei The Band. Il titolo va a Rock of Ages, registrato quattro anni prima a New York e che cattura l’essenza di una performance live rock migliore di sempre. Sono infuocati, dall’apertura con la cover di Don’t Do It di Marvin Gaye (uno showcase per lo stile volutamente di basso profilo Rick Danko) fino ai cut estremi come The W.S. Walcott Medicine Show, King Harvest (Has Surely Come) e The Unfaithful Servant, molti dei quali con gli arrangiamenti dei fiati di Allen Toussaint. La jam assurda di Garth Hudson, tra The Genetic Method e Chest Fever, che prende da solo quasi un intero lato del doppio Lp, rappresenta le radici della leggenda dello psychedelic rock.Questo è il sound di cinque ragazzi in completa sintonia telepatica, prima che si stufarono degli altri. The Last Waltz racconta di come i The Band erano grandi, Rock of Ages ve lo dimostra.
21. Miles Davis “The Complete Live at the Plugged Nickel 1965” (1995)
Verso la fine del tour del 1965, ad un giorno dalla data finale, il quintetto di Miles Davis ebbe un idea folle: suoneremo tutto l’opposto di ciò che la gente si aspetta. Quando la band (composta da Davis, il sassofonista Wayne Shorter, il pianista Herbie Hancock, il bassista Ron Carter e il batterista Tony Williams) arrivarono al Chicago Club, scoprirono che i rappresentati delle label erano presenti per registrare l’esibizione. Questo meraviglioso pacchetto da 8 Cd, cattura ogni nota di due serate “anti-musica”, con un jazz da capogiro. Il trombettista Davis all’inizio è un po’ titubante, ma verso la fine è quello che dirige la band. «Quando ho sentito quei ragazzi che stavano per cedere sotto di me, ho capito che era il momento da “Avanti tutta!”» ricorda Shorter. «Sono stato nella band per poco più di un anno, e poco dopo eravamo completamente fuori. Era come scoprire il significato della libertà nel vero senso della parola».
20. Bruce Springsteen & The E Street Band “Live 1975/85” (1986)
Un uomo che una volta disse «Non posso permettermi di produrre niente di meno che i migliori LP live di sempre», aveva tanto da dimostrare al suo primo album live. Bruce Springsteen dovette crearsi una reputazione per i suoi spettacoli live, e quando arrivò il momento di raccontare cosa succedeva attraverso il disco, pensò in grande. Assemblò 40 canzoni spaziando dai cocktail di Hollywood alle arene del Jersey, dalle passerelle del ghetto a Rambo Bruce, riempiendo 5 LP (o tre CD). Il nucleo di questo box epico è la sequenza di quattro canzoni: Born in the U.S.A., Seeds, The River (con una storia toccante riguardante Springsteen, suo padre e la stesura di questo pezzo), e War di Edwin Starr. «Queste quattro canzoni insieme raccontavano cose diverse, cose mai sentite prima su nessuno dei nostri album», disse il manager e producer Jon Landau.
19. Grateful Dead “Europe ’72” (1972)
Steppin’ Out era il titolo originale di questo triplo vinile estratto dal lungo tour europeo dei Grateful Dead. Con un Bill Kreutzmann da solo alla batteria a seguito dell’abbandono di Mickey Hart, e l’accrescere di Keith Godchaux al piano, i Dead stavano arrivando al tipo di suono ridotto, perfezionato nei loro precedenti album da studio Workingman’s Dead e American Beauty. Sicuramente Europe ’72 completa una trilogia acido-Americana che vede come feature una manciata di nuove canzoni dal suono color seppia, come He’s Gone, Jack Straw, Brown-Eyed Women, Ramble on Rose e Tennessee Jed. L’eliminazione di quasi tutti i suoni della folla e la diverse sovra-incisioni post- tour (maggiormente quelle vocali), suggeriscono un ibrido da live-studio con l’apocalittica versione di Morning Dew di Jerry Garcia come chiusura dello spettacolo.
L’album live di più successo dei Dead segnò anche l’ultima registrazione con il cantante e tastierista Ron “Pigpen” McKernan, che morì l’anno successivo.
18. Jimy Hendrix “Jimi Plays Monterey” (1986)
Queste nove canzoni prese dall’iconico spettacolo con chitarra del 1967, sono apparse in molte edizioni, prima di tutte come l’incompleta Historic Performances Recorded at the Monterey International Pop Festival, uno split album dal fascino particolare, che conteneva quasi metà del set di Jimi Hendrix Experience e tutto Otis Redding. L’edizione completa del 1986 segnò la prima performance completa, dove Hendrix aggiorna il concetto di blues (Killing Floor), urla il nome del suo eroe Bob Dylan (Like a Rolling Stone), rigira un rock standard da garage in un lutto dal carattere elettrico (Hey Joe) e ne assorbe un altro prima di affondarlo in un fluido più chiaro, creando la coda free noise più importante mai catturato su cassetta (Wild Thing).
17. The Rolling Stones “‘Get Yer Ya-Ya’s Out!’ The Rolling Stones in Concert” (1970)
ll chitarrista blues Mick Taylor si unì ai Rolling Stones nel 1969, facendoli entrare in un nuovo groove profondo, scintillante di chitarre che si agitavano l’una con l’altra come animali in un barile. Il concetto di Ya-Ya’s era quello di documentare semplicemente il loro suono brillante: «Si tratta di manomettere il meno possibile», disse Keith Richards. Nei live, la band è più rumorosa e aggressiva; mai come prima il batterista Charlie Watts risultò essere così sicuro di sè. Il bassista Bill Wayman disse al magazine Goldmine: «Gli Stones erano la band live migliore di qualunque altra band di quel periodo. Io e Charlie eravamo sempre sul pezzo, sempre insieme, e con tutto sempre sotto controllo. Se avevamo le nostre robe sotto controllo, allora tutto andava per il verso giusto». Registrato solo una settimana prima di Altamont, i Rolling Stones suonarono alcune canzoni di Chuck Berry, Sympathy for the Devil, Stray Cat Blues e quella che fu probabilmente la definitiva Midnight Rambler.
16. Jerry Lee Lewis “Live at the the Star Club, Hamburg” (1964)
Registrato in uno dei club di Amburgo dove i Beatles iniziarono la loro carriera due anni prima, Live at the Star Club rimane una delle performance più elettrizzanti del Rock & Roll Hall of Famer. Il concerto arrivò sei anni dopo che il crollo della carriera dell’icona del rock Lewis, con la scoperta del suo matrimonio con la propria cugina 13enne, ma a 28 anni era musicalmente al top. Fa esplodere Great Balls of Fire in meno di due minuti, e sembra che stia facendo a pezzi il suo pianoforte con Whole Lotta Shakir’ Goin’ On. Con le sue cover selvagge Money e Hound Dog distrugge il pubblico che esultava. «Oh cavolo, quella è stata davvero una registrazione super» dice nella sua semi autobiografia del 2014.
15. John Coltrane “Live!At the Village Vanguard” (1962)
Le quattro notti di novembre del 1961 dove John Coltrane e le varie lineup del suo gruppo furono registrate a un club di Manhattan crearono molta più musica di queste tre tracce – e gran parte del suo album successivo, Impressions, fu tratta proprio da quegli spettacoli. Ma Live! At the Village Vanguard è tanto una battaglia quanto un album. In quel periodo il mondo del jazz era drasticamente diviso riguardo gli assoli infiniti di John Coltrane tra chi li considerava innovazioni brillanti o, come dice una review dell’album «nonsense musicale… che si spaccia jazz». Quando il giornale DownBeat chiese a Coltrane di difendersi riguardo a questa affermazione, lui spiegò pazientemente che «La cosa principale che un artista vorrebbe fare è dare un’immagine all’ascoltatore delle quantità di cose meravigliose che conosce e farli avvertire l’universo». La musica di Live! At the Village Vanguard la mette giù in maniera più franca: Siamo il treno verso il futuro, e ti conviene rincorrerci.
14. Sam Cooke “Live at the Harlem Square Club, 1963” (1985)
L’elegante Sam Cooke era una delle star R&B crossover di più successo degli anni sessanta. In questa notte di gennaio del 1963, contando per un pubblico black in un club affollato di Miami, Sam liberò il suo lato più soul e crudo («non combattetelo», disse al pubblico, «lo dobbiamo sentire»). La sua connessione con la folla è elettrizzante, la band si muove all’impazzata e le sue versioni dei classici Having a Party e Bring it On Home to Me risuonano forti come nient’altro in quel periodo. RCA Records trovò il risultato troppo intenso per la sua immagine pop, e mise da parte la performance. Quando alla fine rilasciarono un live album nel 1964 era At The Copa, a confronto, una versione scadente. L’album fu rilasciato 20 anni dopo una richiesta popolare.
13. Cheap Trick “At Budokan” (1979)
Alla fine del 1978, Cheap Trick aveva 3 album nella libreria e un grande catalogo di canzoni come Surrender e I Want You to Want Me, ma non erano ancora vicini ad un grande successo di pubblico in America. Avevano molto riscontro in Giappone e vennero trattati come i Beatles quando arrivarono ad aprile di quell’anno, mettendo in piedi una notte pazzesca al Nippon Budokan di Tokyo. Originariamente pubblicato solo in Giappone, l’etichetta (saggiamente) lo pubblicò anche in America dopo che le stazioni radio cominciarono a suonare la versione live di I Want You To Want Me e che le copie importate cominciarono a vendere a prezzi parecchio alti. La loro cover di Ain’t That a Shame di Fats Domino fu trasmessa anche lei parecchie volte. «Avevamo quel materiale», disse il chitarrista Rick Nielsen nel 2013. «Suonavamo dove potevamo, andavamo in tour costantemente, sapevamo quel che stavamo facendo».
12. Muddy Waters “At Newport 1960” (1960)
Un Bob Dylan elettrico al festival di Newport guadagna tutta la nostra stima, ma Muddy Waters lo raggiunse in 5 anni, battendolo. Al top del revival folk, l’icona del blues elettrico di Chicago porta al Newport Jazz Festival una combo spaventosamente potente ed amplificata. Nessuno riesce a stare fermo al suono della grossa voce di Waters, della chitarra ruggente e della sua band, neanche lo stesso Muddy, che durante I’ve Got My Mojo Working lasciò il microfono libero per avere il tempo di fare una giravolta con James Cotton, all’armonica, mentre la folla impazziva. E per il finale, il poeta Langston Hughes scrisse Goodbye Newport Blues sul posto, e il pianista Otis Spann la dovette cantare perché Waters era troppo esausto dalla sua esibizione di Mojo per poter cantare altro. At Newport divenne rapidamente un libro guida per giovani entusiasti del blues-rock: Keith Richards e Mick Jagger erano tra quelli che lo ascoltarono più attentamente.
11. Talking Heads “Stop Making Sense” (1984)
Nel corso di Stop Making Sense, i Talking Heads crescono gradualmente da un David Byrne con chitara acustica e boombox ad una funk machine super carica composta da nove membri – la band viene integrata dal tastierista Bernie Worrell dei Parliament Funkadelic, il chitarrista Alex Weir dei Brother Johnson e altri membri. «Se si fosse aperto il sipario con tutto lì in mostra, non ci sarebbe stato scampo», disse una volta Byrne in una pseudo intervista con se stesso. «Il film racconta la storia della band, e diventa più drammatica e più vera mano mano che prende forma. È tipo 60 Minutes di acido». Diretto dal futuro vincitore dell’Oscar Jonathan Demme, il film-concerto sulla band combina delle registrazioni prese da 3 spettacoli al Pantages Theater di Hollywood del tour di Speaking in Tongues nel 1983. «Era anche idea della band la decisione di suonare nei piccoli teatri dei college o nelle case d’arte in giro per la città piuttosto che cercare di andare sui grandi spazi», disse a Rolling Stone il batterista Chris Frantz. «Questo è uno dei motivi perché ebbe tutto questo successo: lo spettacolo era in grado di rimanere per tanto tempo nei teatri d’arte. Il pubblico ci ritornava più volte». Anche senza la visuale dei completi/frigorifero di Byrne, questo album racchiude il picco creativo della band.
10. Nirvana “MTV Unplugged in New York” (1994)
Togliete la peluria e la rabbia, e i Nirvana non sono altro che crude emozioni. Per una registrazione delle serie Unplugged di MTV, fecero la performance più leggendaria della loro breve carriera, rivelando alcuni gioielli dei loro album con una selezione di cover per chitarra acustica, batteria suonata delicatamente e la voce strappacuore di Kurt Cobain. Ospiti speciali ed eroi underground, come i Meat Puppets, si unirono alla band sul palco per un trio di canzoni («(I boss di MTV) pensavano dovesse arrivare un autobus da Seattle con Alice in Chains, Pearl Jam e Soundgarden che uscendo si sarebbero uniti in una jam coi Nirvana», dice il direttore Beth McCarthy-Miller con una risata), ma fu l’arrangiamento di «Where Did You Sleep Last Night» dei Leadbelly che si prese la scena, dando vita all’episodio più iconico della serie. Come rivelato in una biografia su Cobain di Charles Cross, Heavier Than Heaven, la melanconica natura dello show fu esteticamente intenzionale: il cantante confermò al producer dello show che il set doveva essere decorato “come un funerale”.
9. Bob Dylan “The Bootleg Series, Vol. 4: Bob Dylan Live 1966: The ‘Royal Albert Hall Concert’” (1998)
Nei tre decenni prima che fu pubblicato ufficialmente nel 1988, questo era il bootleg live più famoso in circolazione, con una nomea sia mitologica (un disturbatore chiamò Dylan «Giuda»; e Dylan gli rispose «Non ti credo! Sei un bugiardo!») che mitica (fu registrato a Manchester, non alla Royal Albert Hall di Londra). La leggenda dice che il salto di Dylan dal revival folk acustico al rock&roll elettrico lasciò i suoi vecchi fan traditi, e lui e la sua nuova band (composta principalmente dai membri del gruppo di Ronnie Hawkins) dovettero imporsi con forza ad un audience ostile. Infatti l’apertura dello show, come ogni altro show di quel tour, cominciò con un set acustico. Comunque sia, nella metà più elettrica del concerto, tutto diventa maniacale ed affascinante, sputando fuori ogni parola come se fosse una bestemmia. «Poteva essere musica arsenico, o musica di Phaedra», disse a Playboy lo stesso anno, «La musica folk è come un mucchio di persone grasse».
8. MC5 “Kick Out the Jams” (1969)
Dimenticatevi del flower-power, il botto dei primi 10 minuti del debutto degli MC5 fece sembrare i garage-rocker dell’epoca deboli e solo vogliosi di somigliarli. «Voglio sentire un po’ di rivoluzione là fuori», grida in maniera poco rispettosa il cantante/militante Rob Tyner, citando Eldridge Cleaver.
E mentre non tutti erano pronti per una rivoluzione – Lester Bangs scriveva per Rolling Stone nel 1969 che i Motor City 5 usavano il casino e l’aggressività per «celare le loro idee pacifiche» – la storia mostra come l’album spingeva l’underground rock verso un precipizio. È quasi pittoresco da pensare oggi, ma il segnale d’apertura «Kick out the jams, motherfuckers!, infastidì così tanto la label della band, Elektra, che la compagnia dovette preparare le versioni sia censurate che non. Peter Doggett riporta nel suo libro There’s a Riot Going On: Revolutionaries, Rock Stars and the Rise and Fall of ‘60s Counter-Culture che un lotto della versione non editata finì alla catena Hudson’s. Quando rimandarono indietro la merce e si rifiutarono di rifornirsi di entrambe le due versioni, la band diede ancora più sfogo alla sua ira con messaggi simili in una serie di pubblicità nazionali: «Fuck Hudson’s!».
7. Grateful Dead “Live/Dead” (1969)
Live/Dead potrebbe non essere stata il primo passo per una band che si doveva rifinanziare le bollette dello studio con un live relativamente non costoso, ma potrebbe essere stato quello di più successo. I Grateful Dead, in debito con Warner Bros. di 180 mila dollari, i furono i primi a passare alle 16 tracce nei live, agli inizi del 1969. «Venivamo da una seria, lunga composizione musicale che in seguito dovemmo registrare», dice Jerry Garcia. Il doppio vinile Live/Dead apre con una Dark Star lunga un lato, parte verso il cosmo successivamente in St. Stephen e The Eleven, continuando poi con Ron “Pigpen” McKernan e la sua versione lasciva, anche questa lunga un lato, di Turn on Your Love Light di Bobby “Blue” Bland e che riporta tutti a casa con un blues di Rev. Gary Davis seguito da Feedback e una versione a cappella di And We Bid You Goodnight. Riguardo la più grande pubblicità delle capacità di una band di stare sul palco, i Dead si dimostrarono sia seri avanguardisti che impeccabili riscopritori delle proprie radici – e spesero il resto dalla loro carriera dimostrandolo sul palcoscenico.
6. Kiss “Alive!” (1975)
«You wanted the best, and you got it — the hottest band in the land!». Sin da questa introduzione spavalda fino alla discussione sulla preferenza dei drink del pubblico da parte del chitarrista Paul Stanley, Alive! riassume in maniera precisa il catalogo crudo di inizio anni Settanta dei Kiss e del loro charme estremo e fuori portata. In cambio, il doppio LP del 1975 divenne il primo album Top 10 della band. Botte di energia sui classici glam come Strutter e Cold Gin rivelano semplicemente quanto sudore s’insidiava sui volti truccati dei membri della band durante ogni serata. Le chiacchiere su quanto l’album si addolcì in studio continuano ancora oggi, ma questo non affievolì comunque il loro lascito. Alive! non solo generò sequel multipli, ma la lineup del 2015 dei Kiss la ricreerà completamente con il Kiss Kruise questo autunno.
5. B.B. King “Live at the Regal” (1965)
Quando calcò il palco allo storico Regal Theater nella Southside Chicago nel novembre del 1964, B.B. King aveva 30 hit R&B ma aveva a malapena intaccato i cartelli pop. Fu registrato quella sera il primo live album di King, che successivamente divenne la porta d’ingresso per molti ascoltatori bianchi, e molti sostenitori del blues ancora oggi ne parlano con stupore; si vocifera che Eric Clapton avrebbe ascoltato Live at the Regal per potersi preparare per i suoi show. I neofiti del genere si imbatterono in una performance urban ma comunque professionale, condita da una sezione fiati killer, che condiva ogni traccia con class e grazia, tutto il meglio per raccontare gli assolo che tirava fuori dalla sua amata Gibson “Lucille”. Qui il suo set ha inizio, con Everyday I Have the Blues – non un lamento, ma un vanto di un cavallo da tour che si esibì in più di 300 show ogni anno.
4. The Who “Live at Leeds” (1970)
I The Who passarono la maggior parte del 1969 e del 1970 “on the road”, suonando la loro rock opera, Tommy, come pezzo forte dei loro concerti epici. Il loro diventare una potente live band senza paure era tanto normale quanto grintoso: quattro stregoni sui diversi angoli del palcoscenico, che sorreggevano insieme un demone dorato. La versione originale di Live at Leeds, registrata allo spettacolo fatto nel college il giorno di San Valentino nel 1970, comprendeva tre cover e tre trasfigurazioni degli standard degli Who, masterizzata per poter somigliare a un bootleg LP (questo spiegò il perché degli scoppiettii di un cavo difettoso). Come spiegò il cantante Roger Daltrey, è «La fine di uno show da due ore e tre quarti…è solo la jam finale». Tommy stesso fu omesso, anche se alcune improvvisazioni saltano fuori nel corso della jam da 15 minuti che si evolve nel pezzo proto-punk My Generation. Altre edizioni future aggiunsero gradualmente le altre 27 canzoni suonate quella sera.
3. Johnny Cash “At Folsom Prison” (1968)
L’album live del 1968 di Johnny Cash fu rilasciato con tempismo perfetto per la leggenda country, che si era ritrovato dipendente da alcool e droghe, per non parlare del periodo di stasi del suo successo quando per quattro anni non si avvicinò con nessuna hit alla Top 40. Anche se si esibì nelle prigioni per quasi una decade, il suo arrivo a Folsom per la prima registrazione liven ispirò il pezzo iconico del 1995 Folsom Prison Blue e risultò essere esattamente ciò che gli serviva nella sua carriera. «È lì che ho conosciuto Glenn Sherley», disse il cantante in un’intervista a Rolling Stone del 1973, riferendosi al prigioniero che scrisse Greystone Chapel la canzone portata al debutto da Cash. «Ed è stato lì che le cose ricominciarono nuovamente per me».
2. The Allman Brothers Band “At Fillmore East” (1971)
Completo di roadies strapieni di Pabst, At Fillmore East degli Allman Brothers potrebbe essere un doppio LP concentrato sul blues-rock, se non fosse per le jams di alto livello dei lati B, C e D. Registrato alla Bill Graham’s East Village venue nel marzo del 1971 e pubblicato 4 mesi dopo, è l’ultimo album degli Allman Brothers sotto la gestione di Brother Duane, la cui informale chitarra, influenzata da Coltrane, regalò una grazia particolare su una versione da 23 minuti di Whipping Post, mostrando una via oltre gli intrecci del blues. «È come fece B.B. King su Live at the Regal, quasi come una grande e lunga canzone, un miscuglio gigante», disse Gregg Allman al biografo Alan Paul. «Non si fermò mai. Continuò a spaccare». Dall’altro lato dell’album, si trova un ritratto di un assente road manager Twiggs Lyndon Jr., incarcerato per aver accoltellato uno dei proprietari del club Buffalo in seguito a dei debiti.
1. James Brown “Live at the Apollo” (1963)
Il fondatore della King Records, Syd Nathan, declinò l’idea di James Brown di un live album. Non erano stati pensati come profittevoli e non era, per questo, particolarmente interessato in nient’altro all’epoca se non a dei singoli. «Nessuno ci credeva, nessuno degli executive della compagnia ci credeva» ricorda Bobby Byrd. «Ma vedi, noi eravamo là fuori. Vedevamo questa risposta come se volessero distruggerci lo show». In cambio, Brown auto finanziò lo show e fu quasi preparato a pubblicarlo da solo. Anche se il mercoledì era solito essere la Amateur Night all’interno dello storico Harlem Apollo Theater, l’“Hardest Man in Show Business” era sul palco. Nonostante il timing di appena 27 minuti, era tutto un flirt: all’inizio provava ad alternarsi tra i ritmi da treno in corsa del suo varietà, il Famous Flames e l’atteggiamento tranquillo in ballate formali come Try Me. Più a lungo tentava di trattenersi, però, più la sua voce tremava prima di crollare finalmente, gridando e urlando mentre implorava e supplicava.