Loading...

La libertà dall'inizio alla fine
Il parlamento ha deciso di non decidere e ora la palla tornerà alla Consulta: un’altra occasione persa per il Paese degli scaricabarile. Chi non cede sono i soliti noti, questa sera riuniti alla grande manifestazione di Roma: Rolling Stone sarà con loro
C

hiedere a un parlamento in fin di vita una legge sulla buona morte potrebbe sembrare un paradosso o quantomeno un esercizio di crudeltà democratica. Non è così. La verità è che questo parlamento, uscito malconcio dalla crisi di Governo agostana e ora di nuovo scosso dallo strappo di Palazzo renziano, non ha mai pensato di prendere sul serio l'ordinanza della Corte Costituzionale dell'ottobre dell'anno scorso. Nonostante una proposta di legge d'iniziativa popolare presentata più di 5 anni fa dall'associazione Luca Coscioni, la presenza – peraltro in maggioranza relativa – del gruppo parlamentare paladino della democrazia diretta (evidentemente vale solo su' webbe, in carne e ossa è un'altra storia) e altre quattro proposte di legge depositate dai gruppi parlamentari, i rappresentanti del popolo non ce l'hanno fatta, e così sarà ancora una volta la Consulta a dover parlare. I giudici faranno la cosa giusta, esprimendosi sul caso di Marco Cappato e Fabiano Antoniani (dj Fabo) con due udienze pubbliche il 24 e 25 settembre, a cui seguirà la Camera di Consiglio. Si spera che per allora, quando la vicenda ritornerà su tutte le prime pagine dei giornali, i partiti diano vita a un dibattito all'interno delle istituzioni, in grado di allargare il tiro da chi è coinvolto in casi di suicidio assistito al macrotema che da molti anni attende di essere affrontato: l'eutanasia. Sarebbe ora.

Sono passati più di 20 anni dall’inizio delle battaglie di Beppino Englaro per Eluana, poi furono Mina e Piergiorgio Welby, fino a Valeria Imbrogno e dj Fabo, e niente di niente è cambiato. Come se il tema non fosse un tema, con il solito atteggiamento all’italiana di buttare la palla avanti sperando che ci sia qualcun altro pronto a prenderla. Ma lo scaricabarile sulla vita non è più accettabile, un Paese civile deve affrontare le questioni politiche più importanti, le battaglie non possono sempre essere lasciate a un manipolo di avanguardisti dei diritti civili, con la speranza – per fortuna sempre mal riposta ­– che attorno a loro si spengano attenzione e forza propulsiva.
Era il 2008 quando Giulio Mozzi, dalle pagine di Vibrisse, pubblicò il suo testamento biologico esortando i lettori del blog a fare lo stesso, un appello a cui si aggiunse Il primo amore con il tentativo di Antonio Moresco di coinvolgere intellettuali e scrittori a fare lo stesso. Non aderirono in molti.

" CHIEDERE A UN PARLAMENTO IN FIN DI VITA
UNA LEGGE SULLA BUONA MORTE POTREBBE SEMBRARE UN PARADOSSO "

Oggi i tempi sono cambiati – per alcuni non per tutti, ad esempio non tanto per il Vaticano che continua legittimamente a difendere le sue posizioni e un po’ meno legittimamente a fare pressione a tutto campo sul presidente del Consiglio di uno Stato terzo – ma il tema resta lì, come ibernato nello spazio-tempo dell’ignavia politica. Qui non si vuole entrare nel merito – il parlamento deve entrare nel merito – anche se si potrebbe sottolineare il paradosso dei difensori della vita a tutti i costi che impediscono a una vita di spegnersi naturalmente, facendo ricorso a quanto di meno naturale (o divino) esista: le macchine, la tecnologia, alla fine la pura tecnica. Lasciamo alle persone la libertà di scelta sulla propria vita, stabilendo una cornice giuridica all’interno della quale chiunque possa sentirsi garantito e rappresentato, e smettiamola di imporre i propri assoluti agli altri. Nel frattempo sosteniamo chi sta dalla parte giusta della Storia: Marco Cappato, Mina Welby, la Coscioni e quegli artisti – purtroppo troppo pochi – che hanno avuto il coraggio civile di scendere in piazza a Roma. “Rolling Stone” non fa nulla di particolarmente eroico, se non accodarsi a una battaglia sacrosanta, combattuta per due decenni da altri, portando il suo secchio d’acqua al pozzo. Ma lo fa con estrema assertività e convinzione. Nel frattempo alziamo il volume delle libertà e divertiamoci da pazzi al concerto. “Keep on Rockin’ in the Free World”.

di Marco Cappato

Col Governo che verrà, sarà tre volte Natale, festa tutto il giorno e si legalizzerà l'eutanasia. O forse no. Dipende anche da noi.

I

ntanto, le leggi le vota il parlamento, che rimane lo stesso. Movimento 5 Stelle e Partito Democratico hanno avuto e hanno la maggioranza per approvare in parlamento la legalizzazione dell'eutanasia da esattamente sei anni e mezzo, senza però mai il coraggio di farlo. Non c'è più (almeno per un po') caporal Salvini a dettare l'agenda politica, certo. Ma non è detto che ciò basti per trovare nel mezzo di una selva oscura di proibizioni la retta via dei diritti civil. Anche perché il papa amico dei migranti (sia lodato) e dell'ecologia (sempre sia lodato), sulla sacralità della vita contro il volere del malato non ha cambiato idea: si scrive diritto alla vita, ma si legge dovere alla vita. Il Vaticano sta riservando un occhio di riguardo verso il nuovo governo, e un prezzo (politico s'intende) andrà pur pagato.

E allora come si fa? Semplice: si fa come si è fatto finora.
"Siate il cambiamento che volete vedere nel mondo", recita la massima gandhiana. Detta più terra a terra, significa che a parlare son buoni tutti, ma è la pratica che conta. Non è una novità: non sarebbe arrivata la legalizzazione dell'aborto senza gli arresti di Bonino, Spadaccia e altri; la prima depenalizzazione delle droghe negli anni '70 si "accese" insieme al primo spinello pubblico di Pannella, così come il carcere del radicale Cicciomessere aprì la strada alla fine del servizio militare obbligatorio. Si potrebbe continuare con decenni di esempi, fino ad arrivare a quando, due anni fa, le udienze parlamentari sul testamento biologico hanno accompagnato quelle del processo a mio carico per la morte di Fabiano Antoniani, fino alla mancata approvazione di una legge e al rinvio del processo alla Corte costituzionale.

Il processo è ora sospeso, fino a nuovo pronunciamento della Corte, previsto per il 24 settembre. La Consulta aveva dato un anno di tempo al parlamento per approvare una legge, ma il tempo è passato invano. Con Mina Welby, siamo anche imputati a Massa per avere aiutato Davide Trentini a morire senza soffrire. Il reato è sempre lo stesso (aiuto e istigazione al suicidio), punito in Italia da 5 a 12 anni di carcere. Prossima udienza a novembre. Dal sito soseutanasia.it continuiamo a aiutare persone che si rivolgono a noi (quasi 800 in due anni e mezzo circa), mentre in un Paese civile dovrebbero potersi rivolgere con fiducia e in piena legalità al proprio medico. Governo o non Governo, noi andiamo avanti.

Anche senza farsi processare, ciascuno può fare molto, senza limitarsi a sperare che Conte, Di Maio e Zingaretti si illuminino sulla via di Olanda, Belgio, Lussemburgo e Svizzera. Il 19 settembre sarà la prima volta di una manifestazione-concerto per vivere liberi fino alla fine, cioè per l'eutanasia legale. Si terrà proprio in quella piazza Don Bosco del quartiere Tuscolano di Roma, dove la salma di Piergiorgio Welby trovò sbarrate le porte della chiesa: il cardinale Ruini aveva negato il funerale religioso a chi, dopo decenni di lotta contro la distrofia muscolare, ebbe la colpa di chiedere di essere finalmente lasciato libero almeno di morire in pace.

Chi non potrà essere presente fisicamente al concerto potrà comunque sostenere la campagna per la legalizzazione sul sito eutanasialegale.it, con un contributo economico, una firma, un'email di passaparola o di sollecito al parlamentare eletto nel proprio territorio.

Soltanto la mancanza di informazione e dibattito può permettere ai partiti di rinviare ogni decisione. La stragrande maggioranza degli italiani è d'accordo, magari perchè ha vissuto in prima persona il problema, senza bisogno che glielo spieghi la televisione. Un grazie particolare dunque a 'Rolling Stone', che ha fatto propria la battaglia diventando così quel cambiamento che vorremmo vedere anche in TV.

di Francesco Oggiano

Negli ultimi anni solo cinque Paesi al mondo hanno regolamentato l’eutanasia, tutti gli altri non se ne sono ancora occupati.

I

n Europa gli unici Stati a consentire l’eutanasia sono l’Olanda, il Belgio e il Lussemburgo. Nel primo, l’eutanasia è prevista per i malati senza margini di miglioramento dall’età 12 anni. In Belgio, invece, non esistono limitazioni d’età. Nel resto del mondo l’eutanasia è permessa, con qualche restrizione in più, solo in Canada e in Colombia.

I numeri dei casi sono difficili da raccogliere. Secondo una ricerca del “Regional Euthanasia Review Committees”, nel 2017 in Olanda ci sono stati più di 6.500 morti per eutanasia o suicidio assistito (pari al 4,4% delle morti totali nel Paese). Il maggior numero di casi riguardava persone malate di cancro. Il 30% di loro era sui settant’anni, il 25% sugli ottanta e il 21% sui sessanta. Quasi sempre (l’80% dei casi) l’eutanasia è stata praticata a casa dei pazienti.

Più regolamentato è invece il suicidio assistito, legale anche in Svizzera e in nove Stati americani, tra cui California, Colorado, Hawaii e New Jersey. Le condizioni variano da Stato a Stato (in base a criteri come l’età del richiedente, la presenza di una malattia terminale, l’eventuale profitto dell’organizzazione che assiste il suicida).

Negli altri Paesi, invece, governi e parlamenti non sono mai riusciti ad affrontare il tema del fine vita con discussioni approfondite e concrete. Il risultato è che spesso le persone che vogliono esprimere le ultime volontà sono costrette a intraprendere lunghissime battaglie giudiziarie, e a demandare ai tribunali la responsabilità di tracciare una giurisprudenza sul tema. Oppure a viaggiare per andare incontro alla morte desiderata, con costi non accessibili a tutti. Secondo uno studio, solo nel 2018 ben 221 persone sono andate in Svizzera per praticare il suicidio assistito.

infografica Eutanasia infografica Eutanasia

Queste sono alcune delle lettere che ogni giorno l’associazione Luca Coscioni riceve da persone che chiedono aiuto e informazioni. Per motivi di privacy i nomi sono stati modificati

di Dario Falcini

Accompagno le persone a morire in nome della libertà

L

a vita è un paradosso, e a volte i paradossi aiutano a vivere meglio. È necessaria una stupefacente crasi tra Marzullo e la mistica orientale per comprendere etica e scelte di Sabina Cervoni, la donna che ha trovato nell’eutanasia il più grande atto di empatia possibile nei confronti del prossimo. 59 anni, romana, dopo gli studi in Sociologia e una specializzazione come infermiera professionale di sala operatoria, per 10 anni ha vissuto tra Somalia, Sudan, Mozambico e Ruanda, dove, per conto della Croce Rossa Internazionale, si è occupata di alcune delle principali emergenze umanitarie del nostro tempo. Nel 2005 si trasferisce a Ginevra, dove da 15 anni è al lavoro su progetti di inserimento professionale e politiche migratorie.

«Nelle zone di conflitto in Africa avevo maturato con la morte un rapporto, diciamo così, difficile», spiega. «Là vedevo ogni giorno persone che avrebbero voluto vivere, e che invece morivano. Una volta in Svizzera, frequentando gli ospedali, mi è capitato di incontrare uomini e donne che non ne potevano più della loro esistenza, ma che non potevano interromperla. Allora mi sono chiesta “ma perché la vita e la sua fine non si possono scegliere”?».

Sabina scopre che a Ginevra è possibile farlo, e diventa un’accompagnatrice di Exit. Divisa in tre “sezioni”, sulla base delle zone linguistiche da cui è composto il territorio elvetico, l’organizzazione ha delle emanazioni in numerosi Paesi europei e anche in Italia, a Torino. Exit si presenta come “un’associazione che si impegna in favore dell’autodeterminazione delle persone nella vita e nella morte”. Come fa? Rilasciando un testamento biologico a chi lo richieda e offrendo un’assistenza al suicidio “sicura e dignitosa”.

L’attività di Exit è basata sulle possibilità offerte in materia dal diritto svizzero. In Italia, e in altri Paesi in cui non vigono le stesse regole e l’approccio al tema è molto diverso, il ruolo e le modalità di intervento dell’organizzazione sono completamente diversi. Da noi, ad esempio, non c’è azione diretta sul territorio da parte degli operatori, che forniscono invece sostegno ai nostri connazionali che vogliono essere accompagnati in Svizzera a morire. Non tramite Exit, che si occupa solo di residenti svizzeri, ma attraverso strutture come Dignitas o Life Circle, che accompagnano anche gli “internazionali”.

In Svizzera i casi di fine vita sono in forte aumento. «La mia realtà, Exit Romande, è nata nel 1982 e attiva da 2000: allora 17 persone furono accompagnate alla morte, l’anno scorso sono state 299», spiega Sabina Cervoni, che è anche protagonista del corto La quarta parca (nella mitologia le “parcae” stabilivano il destino degli uomini, dalla nascita alla morte, ndr) diretto da Angelica Gallo, che racconta la sua storia di accompagnatrice di Exit e che sarà presentato in anteprima al Film Festival di Reykjavik .

Quanto costa essere accompagnati alla fine della propria vita?
Se uno è residente in Svizzera, nato qua o con regolare permesso di soggiorno, paga i 40 franchi annui di iscrizione a Exit e non ha costi aggiuntivi. Invece per un italiano che chiede a un’organizzazione che effettua queste procedure (le già citate Dignitas e Life Circle, ndr) di essere accompagnato alla morte, il costo è decisamente più elevato, più o meno attorno ai 10mila franchi.

Quali sono i requisiti per l’accompagnamento alla morte?
C’è una procedura nazionale, che tutti i pazienti, le organizzazioni e gli accompagnatori sono tenuti a rispettare. Chi vuole l’assistenza al suicidio deve essere membro di un’associazione che si occupa di fine vita, avere un attestato medico che dimostra la sua capacità di intendere e volere, e una diagnosi medica.

Quali sono i criteri medici secondo cui una richiesta viene accettata o meno?
Sono evoluti parecchio negli anni. In passato serviva la diagnosi di una malattia in fase terminale, in molti casi il cancro, oppure una malattia degenerativa senza soluzione come la Sla. Da cinque anni, dopo una lunga battaglia politica, vengono accettate anche le polipatologie, quell’insieme di patologie tipiche dell’età avanzata che, se cumulate, rendono la persona non più autonoma, prigioniera delle malattie. Oggi un 40% dei casi rientra in questa fattispecie.

E per quanto riguarda i casi psichiatrici?
Il dibattito è aperto, e secondo noi è decisivo, perché riteniamo che una malattia psichiatrica possa recare dolore quanto quella fisica. Exit, per ora, non tratta questi casi perché la loro gestione è molto complicata dalla difficoltà di stabilire la capacità di intendere e volere. Inoltre il richiedente deve passare attraverso un expertise psichiatrico.

Che età hanno, in media, le persone accompagnate?
Io non ho mai accompagnato giovani e giovanissimi, sempre persone dai 40 in su. In media è di 76 anni. E soprattutto donne, perché raggiungono età più avanzate.

Come avviene la morte?
Assieme agli altri documenti, il richiedente deve presentare la prescrizione del farmaco da parte di un medico (di famiglia oppure di Exit). La morte, quasi sempre in casa, avviene tramite pentobarbital, un farmaco che si usa per le anestesie. Lo si diluisce in acqua, e deve essere il paziente a fare il gesto di bere. Se non può inghiottire liquidi, lo si mette in una flebo, ma anche in questo caso deve essere la persona ad aprirne il rubinetto.

Come funziona il tuo lavoro?
Quando una persona presenta un dossier con la richiesta di fine vita, Exit lo sottopone a un accompagnatore (volontario al 100%). Se quest’ultimo accetta la pratica, si chiede un incontro alla persona. A casa sua, oppure nella residenza per anziani in caso viva lì. Ora in alcuni casi anche gli ospedali si stanno aprendo al fine vita. Io di solito chiedo anche la presenza dei famigliari. A quel punto iniziamo a discutere delle motivazioni che lo hanno portato a scegliere la morte: in caso la loro convinzione sia ferma, fissiamo la data.

Ci sono casi di ripensamento?
Su 10 persone che incontro, solo tre vengono accompagnate in tempi brevi alla morte. Molti di coloro che contattano Exit, vogliono solo essere rassicurati del fatto che quando vorranno prendere la decisione noi saremo al loro fianco. Quando capiscono che possiamo intervenire, e in tempi rapidi, si rasserenano. A volte i contatti con noi durano un anno, un anno e mezzo. Spesso arriva prima la morte naturale.

Una volta presa la decisione, quanto ci vuole per avere una data?
Se la domanda è ferma e sicura, circa una settimana.

Come avviene il decesso?
Prima di tutto si somministra una soluzione antivomito, utile a evitare le nausee. Poi si aspettano 15 minuti e si dà il farmaco. Un minuto o due massimo, il tempo di salutare i propri cari – che possono assistere –, e il paziente si addormenta, essendo il farmaco un anestetico. La morte avviene dopo qualche minuto, ne passano circa altri venti prima che noi possiamo dichiarare il decesso.

A quel punto cosa succede?
Io redigo un rapporto, che consegno al medico legale e alla polizia giudiziaria – avvisata il giorno prima dell’evento –, che mi raggiungono sul posto. Sono loro, in ultima istanza, a constatare la morte, dopo di che ridanno ai famigliari i documenti necessari per poter chiamare le pompe funebri. La loro presenza è necessaria perché tecnicamente la morte è considerata suicidio, e quindi servono accertamenti e un’autopsia. Ogni volta che viene presentata una domanda di fine vita, si apre in automatico un’inchiesta contro Exit alla procura cantonale. Le verifiche a casa del defunto servono appunto a chiuderla.

Perché è giusto quello che fate?
L’essere umano lotta da sempre per il principio di libertà e autodeterminazione. La libertà di scelta – anche se spesso è in realtà obbligata dalla condizione fisica in cui ti trovi – deve essere garantita sempre. La vita ha dei limiti e un giorno deve terminare: questo limite può essere messo solo dalla persona, che conosce se stessa. Auguro all’Italia di capire che l’individuo, prima di essere sociale, deve essere libero in sé: sarebbe una rivoluzione culturale.