Non chiamatela discoteca. Sarebbe ingrato, oltre che riduttivo. Chiamatela solo La capannina di Franceschi. Dal 1929. «Una definizione per il mio locale? Semplice, è la storia d’Italia», ci spiega Gherardo Guidi, proprietario della baracca dal 1977. «Ho voluto che rimanesse il nome di chi l’aveva inventata, anche se al timone ci siamo mia moglie e io ormai da moltissimo tempo: in fondo è grazie alla visione di Achille Franceschi (che aprì nel 1929, ndr) se tutto questo esiste».
Dentro al suo ufficio, al piano superiore della Capanna più famosa d’Italia, la luce estiva viene tenuta a bada dalle tende esterne, srotolate a proteggere le finestre di quel rifugio dalla calura agostana. Con noi anche l’amico e giornalista locale Gianluca Tenti, profondo e appassionato conoscitore del luogo.
Guidi è un omone fiero e cordiale, camicia gialla di lino sopra a una canotta bianca come la prudenza suggerisce alle persone di una volta, e un paio di occhiali con la montatura dorata a aiutarne la vista affaticata. Perfetto anfitrione, ancora entusiasta di ciò che fa, nonostante gli anni di carriera onorata si siano ormai accumulati. Stappa una bottiglia di Dom Perignon del 2008 gelata. Mostra l’onorificenza al merito di Grande Ufficiale e commendatore della Repubblica appesa dietro la sua scrivania: «L’unico d’Italia», ci dice. «Ho trasformato l’attività di imprenditore e gestore di locali in un’impresa che dà da lavorare a 60 famiglie, non è banale».
Ostenta un orgoglio comprensibile quando parla di ciò che ha fatto con la moglie Carla, 50 anni insieme. «Donne e polverine sono cose che non c’entrano niente con Gherardo Guidi», confida. Col suo lavoro sarebbe stato semplice avvicinarsi a certi vizi, rammenta, eppure il segreto del suo successo, o almeno di una parte di esso, ne è convinto, sta proprio nella sua prudenza. Oltre che nella sua visione.
«Mi offrirono di rilevare questo locale per tre volte. Dissi di no per due. Mi sapeva di posto vecchio». Ma la terza volta accettò ed eccoci qua. Sopra le mode, seppure sempre di moda, la Capannina è di fatto il locale più longevo del Vecchio Continente – può vantare 4 anni in più dello storico Maxim di Parigi, per intenderci – e, proprio oggi, compie 90 anni.
È ancora una splendida signora. Nonostante l’età, il tempo non riesce a scalfirne la bellezza semplice, esempio di stile in questo mondo impazzito, troppo spesso orfano di buon gusto. Qualche ruga ben portata, ritocchini di botox qua e là, ben celati e comunque sfoggiati con classe, portamento d’altri tempi. Sobria ed elegante, l’anziana Capanna s’appresta a compiere un secolo con la grazia di chi, pago di un passato tanto glorioso, sa accettare il tempo che scorre, senza averne timore.
La sua storia affascinante parte da lontano. Storia di salite e di discese. Incendi. Baccanali. Storia del bel mondo all’italiana, ricco e potente, affascinato da un luogo tanto piccolo e semplice, quanto immenso nel sapersi fare tempio del divertimento forsennato di tante estati viziate. Viziose. Da raccontare.
Era il 15 agosto 1929 quando, grazie alla visione di «un ex sindaco, intrepido e ottimista», come lo definì Indro Montanelli, amico di famiglia, fu inaugurata la Capannina. Già Sindaco di Forte dei Marmi, appunto, è grazie al sor Achille Franceschi, come veniva chiamato, se la meta di villeggiatura più à la page d’Italia si è costituita comune a sé: fino al 1914, infatti, Forte dei Marmi era solo una frazione di Pietrasanta.
Eppure, Franceschi, in tempi ancora per nulla sospetti, già intravedeva nella perla versiliese il potenziale di quella che sarebbe a breve divenuta la più importante stazione balneare italiana, anche grazie alla sua piccola Capanna (in origine misurava 3 metri per 4 ed era adibita a deposito per gli attrezzi dei pescatori locali). Achille l’acquistò grazie a 1000 lire, che la moglie Nella gli diede in prestito, la sfondò da tutti i lati, la ripulì, quindi la coprì con un tetto di frasche. La rivestì di tela di sacco e la tinse di verde, avorio e arancione: gli storici colori dello storico locale. Sotto la tettoia posticcia infilò dei tavoli di legno e qualche sedia di paglia e di corda. E costruì un piccolo bar.
Nonostante le fattezze rudimentali, il posto divenne presto punto di ritrovo per i villeggianti nobili della zona: i principi Belmonte, Del Drago e Rospigliosi, i conti Piccolomi, Spalletti e Ruccellai, il duca Canevaro, il marchese Cinzano, tutti riuniti in nome del buon bere e di qualche chiacchiera leggera. A dieci passi dal mare.
Il successo del neonato locale – che fra le atre cose diede i natali al famosissimo Negroni, inventato proprio fra le quattro mura dall’omonimo Conte –, blasonatissimo nelle frequentazioni nonostante le scarse pretese, a partire dall’arredo pressoché inesistente, varcò presto la Versilia ed arrivò fino a Firenze, prima. E alla lontana Milano poco dopo. Questa fortuna inattesa sbigottì lo stesso Achille, il quale, impreparato a tanto apprezzamento mondano, a fine stagione buttò giù i tre metri per quattro per farne un locale più attrezzato in vista della stagione estiva successiva.
Il secondo anno di vita della Capannina consacrò i fasti del primo. Sotto la tettoia semplice c’era uno spazio per ballare e per poter intrattenere la pregiata clientela al meglio, così il proprietario di quella capanna in espansione mandò a comprare uno dei primi grammofoni elettrici dell’epoca, un Pansthrop Brunswich. Gli costò circa 27 mila lire che, si narra, Franceschi pagò con un mazzo di cambiali.
Il Pansthrop Brunswich accontentò molti, ma non la duchessa D’Assergio, la quale, appoggiata nella villa antistante per il suo soggiorno vacanziero, lamentava il fracasso del grammofono. La duchessa voleva dormire. L’anno successivo il sor Achille, visionario come già detto, decise di aggirare l’ostacolo: al posto dell’aggeggio rumoroso che tanto disturbo aveva dato alla nobildonna mandò un amico a Parigi per scritturare un’orchestra di ragazzi di colore. Nasceva così, quasi per ripicca, il primo vero night estivo con orchestra, facendo risplendere nella sua unicità questa capanna che, senza troppe pretese, stava contribuendo a costruire parte della storia del costume del nostro Paese.
«Era sottinteso che, dentro quel recinto di frasche da selvaggi africani con tanta modestia battezzato, per entrarci bisognava essere almeno Conte», raccontava Indro Montanelli l’11 agosto del 1954 sul Corriere d’Informazione, in un bell’articolo scritto per celebrare il 25esimo genetliaco del locale che egli stesso amava. «Si fece un’eccezione solo per Edoardo Agnelli. Poi venne Edda Ciano. E infine fu la volta di Italo Balbo (gerarca fascista della prima ora, ndr), che col suo idroplano ammarò proprio lì davanti».
E giusto a proposito del quadrumviro del Duce, il re del nostro giornalismo, racconta un aneddoto gustoso che lo coinvolse direttamente, insieme a Nevio Franceschi, uno dei due figli del sor Achille, del quale Montanelli era amico d’infanzia. «A noi due il Maresciallo affidò, perché la facessimo subito rinchiudere nella cassaforte del nuovo albergo di Nella, una valigetta misteriosa che, dalle raccomandazioni che ci fece di non perderla mai d’occhio, capimmo che doveva contenere qualcosa d’importantissimo. Anzi, perché non tardasse a essere riposta nel forziere, ci dettero l’automobile di Gazzoni, che era lì, e che già allora possedeva una macchina americana. Naturalmente, appena fummo a bordo di quell’aggeggio nero e lustro, con un clacson che suonava tre note diverse, noialtri perdemmo la testa e, nel vederci sorpassati da una volgarissima ‘Diatto’, completamente dimentichi del prezioso carico, ci buttammo all’inseguimento. Ma al Tonfano il motore, dopo tre o quattro sussulti, si spense, e non ci fu verso di riaccenderlo. Non c’era più benzina, e distributori a quell’epoca non ne esistevano. Disperati cominciammo a spingere il pesante carrozzone verso Fiumetto, da cui ci separavano quattro chilometri, mentre Balbo, rientrato in albergo, invano cercava dentro la cassaforte la sua valigia. Innervosito, inforcò una bicicletta per tornare alla Capannina e interrogare Achille. Sulla strada sbreccata, i fari di un’auto abbagliarono il Maresciallo che cadde su un mucchio di ghiaia sbranandosi un ginocchio e lacerando i pantaloni fra i denti del pedale. Quando Achille lo vide, sanguinante e con la bava alla bocca, capì subito. Lo issò su un’altra macchina, e via tutt’e due verso Viareggio alla nostra ricerca. Quel che successe quando ci videro grondanti di sudore a spingere l’automobile sul cui sedile davanti posava, abbandonata, la valigetta, ve lo potete immaginare da soli. Noi non sapemmo mai cosa contenesse quel misterioso capo di bagaglio. Sapemmo soltanto sin d’allora, Guido e io, che in Italia i segreti, compresi quelli militari, si tutelano così: affidandoli a ragazzi sciagurati. E quando di lì a qualche anno ci ritrovammo insieme soldati, avevamo già capito tutto».
Prima d’esser confinato a governare la Libia, Balbo si era spesso divertito folleggiando sulle coste della Versilia. Oltre a quello riportato da Montanelli, sono svariati gli episodi pittoreschi che gli vengono attribuiti dai racconti di chi ha potuto vedere. Si racconta che il politico organizzasse serate all’aperto in pineta (la stessa della pioggia di dannunziana memoria), con tanto di strip-tease totali e altro. “Serate celebri per pochi iniziati”, come raccontato da Aldo Valleroni nel suo bel libro Versilia anni ruggenti. Una di queste feste venne interrotta una notte da un violento temporale estivo. Così, nel fuggi fuggi generale, qualche bella signora coinvolta nel baccanale, si ritrovò ignuda sul viale principale della cittadina. Le autorità furono costrette a intervenire e la cosa giunse a Roma, fino alle orecchie di Mussolini. Balbo non si vide più in Versilia per un bel pezzo.
Nel 1939 la Capannina bruciò. Nel tempo record di 62 giorni venne ricostruita, completamente diversa da quella andata distrutta. Nasceva così la Capannina di oggi, rimasta per sempre invariata. Il progetto di riedificazione venne affidato allo stimato architetto Maurizio Tempestini di Firenze (lo stesso che progettò anche la Bussola, altro storico locale della riviera, che fece sudare la Capannina per diversi anni con la sua concorrenza). Nell’agosto del ’39 Achille Franceschi morì di una morte improvvisa, per aver mangiato troppa carne di daino nella riserva del Duca Salviati, dopo una battuta di caccia.
La Capannina gli sopravvisse, sotto l’egida dei due figli Nevio e Guido. Durante il periodo bellico, il locale raggiunse uno dei picchi del suo splendore: proprio in quegli anni gli industriali milanesi che ambivano alla frequentazione del tanto celebrato tempio dell’intrattenimento fortemarmino raggiunsero il loro scopo diventando parte integrante del luogo, anche grazie ai loro danè.
Come raccontato ancora da Valleroni “a quel punto le pazzie non si contarono più”. Feste da ballo tipo rave, spalmate fino a un giorno e mezzo, battaglie notturne a tappi di champagne, scene boccaccesche, gare stravaganti con premi in natura, spesso indicibili. Fino alla chiusura ordinata da Benito Mussolini in persona.
Poi, la guerra finì. E il 15 luglio 1945 la Capannina poté spalancare nuovamente le porte ai suoi avventori patinati. Viziati. Viziosi. Tutta la gioventù dorata italiana si riversò a Forte dei Marmi. Una generazione nuova, più agitata di quella che l’aveva preceduta e che cercava nell’oblio il mezzo per lasciarsi velocemente alle spalle le privazioni e il dolore sofferti durante la guerra appena conclusa.
L’estate del 1946 fu quella di Enzo Ceragioli con la sua orchestra di grido. L’anno successivo arrivò Bruno Quirinetta, batterista-fantasista del quale Guido Franceschi, confinato in quel periodo a Milano, aveva potuto ammirare le doti artistiche al Dorian Club, localuccio alla moda in quel primo afflato di vita mondana post bellica meneghina. Lo scritturò immediatamente. Quirinetta debuttò il 5 luglio del 1947 e chi c’era può giurare che con lui iniziò il periodo più pazzo della Capannina. Fu lui, Quirinetta, a instaurare il non-stop come nuova regola nel sistema di ballo, regola presa e copiata da tutte le orchestre della penisola. E la samba, in Italia, nacque con Quirinetta. Alla Capannina.
Sulla pedana del locale inventato dalla famiglia Franceschi si succedettero le stelle più brillanti del firmamento artistico mondiale. Da Paul Anka ai Platters, fino a Ray Charles e Edith Piaf, che l’8 agosto 1959 fece a Forte dei Marmi la sua unica apparizione davanti al pubblico italiano.
Dopo l’abbandono di Nevio Franceschi il locale fu rilevato da una gestione passeggera, dilettantistica come viene definita da chi ha potuto conoscerla, fino all’arrivo di Gherardo Guidi e della moglie Carla negli anni ‘70, ancora oggi proprietari di questo posto sospeso nel tempo, e garanti della sua qualità.
«Sono qua da 43 anni, gli ho sempre voluto bene a codesto posto perché fin dall’inizio mi sono reso conto del gioiello raro che era. Doveva essere solo curato senza toccare assolutamente niente. Dal canto mio, ho giusto aggiunto delle luci perché il mondo stava cambiando e la musica pure, ma nulla di più». Orgoglioso, certo, per il traguardo raggiunto: «Non mi resta che augurarle ora di arrivare a 100 anni. E, se ci sono io, di arrivarci sempre così».
Ci sono due addetti che stanno fissi dentro al locale per mantenerlo bello e ordinato, ci ha spiegato il proprietario, «perché chi entra non deve sentire l’odore di vecchio, nonostante i 90 anni. Deve sentire il profumo della vernice, vedere le stesse poltroncine e gli stessi divani, solo mantenuti nel tempo. Anche la tappezzeria è rimasta originale». Soffitto coperto di vimini, cotto per terra, le sedie in legno di pino e faggio, avorio, arancione e verde, quel verde che negli ’50 venne definito “verde Capannina”. Come ha resistito alle mode per quasi un secolo?, viene da domandarsi. «Non assecondandole», risponde pronto Guidi. «Mi sono sempre guardato intorno, ho osservato, studiato la gente che veniva a trovarci. Ho azzardato».
Nell’81 Sapore di mare consacrò insieme a Forte dei Marmi, anche la Capannina. «Quando mi coinvolsero, sulle prime rifiutai. Finché mi dissero che avevano scritturato Virna Lisi, allora ci ripensai. Fu anche grazie al film che arrivò il successo di Jerry Calà. Decisi di ingaggiarlo per il locale. Quando partì fu accolto con grande scetticismo, mi criticarono. Ma io ero convinto, ero certo che Sapore di mare fosse entrato nell’animo delle persone. Quando c’era lui, all’inizio, mi mettevo sulla porta e osservavo le persone che uscivano. Dopo i suoi show, la gente andava via col sorriso. Dissi: è fatta. Avevo ragione».
Oltre alle orchestre e agli show più tradizionali, pensati su misura per il luogo, sul palco di Gherardo Guidi sono passate anche figure che poco hanno a che fare con un locale da ballo, inteso come discoteca. Tre su tutti: Gigi Proietti che col suo A me gli occhi please si è esibito una sola volta fuori dai teatri, e l’ha fatto in Capannina. Roberto Benigni che ci fece addirittura uno spettacolo di capodanno nel 1985 e poi Beppe Grillo. Quando ancora faceva il comico si esibì in tre serate che, giura il proprietario della baracca, restano ancora memorabili.
«E poi, lo vuole sapere questo posto come ha fatto a resistere anche? », domanda a un certo punto Guidi mentre la nostra chiacchierata sta per concludersi, dopo quasi un’ora, e il Dom Perignon – sempre ghiacciato – sta per finire. «Certo». «È stato anche grazie alla forza di mia moglie. Siamo sposati dal 19 luglio del 1969. La notte la passammo a letto a fare quel che si deve, per carità. Ma il giorno dopo guardammo tutto il tempo lo sbarco di Armstrong sulla luna. Lui fu il primo. Anzi, il primo sono io: chi mi batte me è un campione del mondo».