L’acqua è quasi alta, basta una pioggia un po’ più piena, la povera Romagna è a un passo, e infatti a Venezia tutti parlano del tempo. Everybody Talks About the Weather è il titolo della nuova (bellissima) mostra alla Fondazione Prada di Ca’ Corner, e riverbera tra i padiglioni, i corridoi, le sale fitte di progetti della Biennale Architettura appena aperta, titolo The Laboratory of the Future. È un tema inevitabile, è il tema, anche più che nell’esposizione precedente: due anni fa ancora s’immaginavano città possibili, visibili, spazi da ripensare post-pandemia, smart-lavoro e smart-vita, privatizzazioni dei luoghi pubblici, degli uffici, di noi stessi. L’uomo pareva ancora l’elemento attorno a cui ruotava tutto, adesso invece ci sono l’acqua (aumentata e insieme sprecata), la terra (da sempre predata), le risorse tutte, e la natura che forse manco si ribella: siamo noi, oggi, a ribellarci vanamente a quello che, in fondo, è sempre stata.
Ai Giardini, padiglione olandese, ci si chiede come conservarla, quell’acqua che sarà il nodo cruciale dei luoghi che abiteremo (quali?), tra tubi e sistemi come negli esperimenti che facevamo da bambini; i belgi s’immaginano mattoni fatti con i funghi; Germania e Stati Uniti tornano al riciclo dei materiali; il Brasile sfascia il mito della Brasilia di Niemeyer: sì, va bene, viva le archistar, tutti qui sognano di diventarne una, ma quella terra è stata tolta agli indigeni, colonizzata seppur dal design (killers of the flower moon, anche in Sudamerica).
Se la Biennale Architettura post-Covid ci diceva che lo spazio s’era ristretto, ridotto, che era sempre più individuale, sempre più antropocentrico, qui si prova a togliere per fare nuovo spazio. La Svizzera, tra i padiglioni più belli, leva tutto e lascia solo una mappa per terra, per abbattere i muri che la separano dal vicino Venezuela (i confini immaginati ai Giardini sono più belli di quelli del mondo vero). L’Austria polemizza: è Venezia stessa a dover riconsiderare i propri spazi, non è possibile che Arsenale e Giardini, dove si muove la Biennale, siano stati tolti alla città e ai suoi cittadini; città e cittadini che di spazio non ne hanno a più, preda ogni giorno dalla bestialità di turisti a cui basta un selfie su un ponte qualsiasi, uno spritz da reggere dentro un bicchiere di plastica, un cannolo rimasto in vetrina per giorni. (Venezia si è riempita di cannoli; cannoli di un verde fluorescente che sarebbe pistacchio, cannoli nuovo orpello di questa specie di Italia in miniatura in cui cinesi servono squallide carbonare che di anno in anno perde la propria identità – Open to Meraviglia, ma dove.)
Una Biennale Architettura, il laboratorio del 2023, che è piena di buio: stanze nerissime dove sedersi a guardare video, studiare progetti, ascoltare voci presagio di un futuro già estinto; e poi il labirinto uzbeko, che è una città o forse un ghetto, un campo di concentramento, un altro luogo in cui lo spazio non c’è più.
Il tema vero, su tutti, è l’Africa, che si prende il Padiglione Centrale (pardon). Un’Africa da immaginare, inventare, un’Africa Wakanda fatta di città parimenti (im)possibili, coloratissime, tecnologiche. La domanda è “come saranno le città africane di domani?”, ed è la bella contraddizione di questa Biennale: ci avete detto che il domani è già finito, che non c’è tempo, non c’è spazio, mai nessuno capirà (come si potrà ancora vivere su questa Terra); ci avete detto che diventeremo migranti anche noi, che d’estate andremo in villeggiatura nei mari del Nord, dunque l’Africa che futuro ha? È un continente mai cominciato (o meglio: devastato dall’Occidente) e forse costretto a esistere solo dentro i render, i modellini.
Intanto però quest’Africa Wakanda si è presa la Biennale tutta, che bellezza. Architetti, designer, artisti africani o di origine africana affollano stand e padiglioni e pure gli aperitivi sulla terrazza di Ca’ Giustinian vista Salute, non per quote politiche ma per merito, per Storia. Di colpo è un mondo a stampa multicolor in cui siamo noi la minoranza – in fatto di novità, idee, energia, talento – e vien da dire: finalmente.
Tutti parlano del tempo, e la mostra curata da Dieter Roelstraete alla Fondazione Prada è, dicevo, la sintesi perfetta. L’avvio è un manifesto apparso nelle università della Germania Ovest nel ’68. Il Sozialistischer Deutscher Studentenbund ci aveva messo sopra i faccioni di Marx, Engels e Lenin, insieme alla scritta “Tutti parlano del tempo. Noi no”. Noi facciamo politica. Oggi invece parlare del tempo è il vero atto politico, e forse questa – il dibattito – resta l’unica forma per dare senso e spazio all’uomo altrimenti schiacciato dal mondo e da sé stesso.
Restano tre scenari possibili, fantasticati quest’anno da quattro padiglioni molto diversi. Il primo scenario: l’uomo e la tecnologia, ovviamente. La Corea del Sud, pazzissima come sempre, ci fa sedere davanti a un quiz sul clima da cui, evidentemente, nessuno uscirà vincitore; Israele nasconde il suo padiglione dentro una specie di cloud, dove finiremo fatalmente tutti.
Il secondo scenario: il magnifico supermarket della Lettonia con marchi che un po’ prendono per il culo e un po’ profetizzano – o raccontano al presente – il mondo dell’architettura e dintorni; il detersivo “Architectures in the Small State”, i mirtilli “Aqua Alta”, il muesli “Architecture Time-Out” e il concorrente “Eco-Logic”, fino alle patatine “Stare and Share: Museums and Libraries in Finland”. L’architettura come grande mercificazione, brandizzazione, in un’installazione che – con grande furbizia – è una delle più instagrammabili di tutte. (Prodotti, quelli inventati dai lettoni, che forse finiranno nella commovente casa-cucina del Giappone, forse l’unico posto in cui esiste ancora la possibilità dell’umano.)
Il terzo scenario è il corpo estraneo di questa Biennale: il padiglione francese immagina una festa forse abbandonata, o che forse deve ancora cominciare. C’è una grande sfera, un po’ disco ball, con dentro il palco pronto per un concerto, e poi trucchi, parrucche, vestiti glam rock. Possiamo (vogliamo) pensarci dentro una festa. Forse la festa è già finita, o forse possiamo ancora ballare sul mondo che brucia.