Tutto ebbe inizio con quella copertina firmata da Andy Warhol. Una banana gialla. Negli ultimi tempi però, il binomio arte contemporanea e musica è diventato sempre più frequente, ma andiamo con ordine.
FRANK OCEAN / WOLFGANG TILLMANS
Uno degli album (a nostro parere) più belli del 2017 ha una copertina che, più che un ritratto, è un micro-clash concettuale. Lo schema è quello classico, il primo piano del musicista – che in questo caso è Frank Ocean – il quale, già nel 2015, aveva annunciato la pubblicazione del suo attesissimo secondo album in studio, intitolato Boys Don’t Cry. Rimandando di oltre un anno l’uscita del disco, facendo crescere l’aspettativa, il 20 agosto 2016, Ocean ha pubblicato Blond (senza la e). La cover del disco lo ritrae in uno scatto di Wolfgang Tillmans in cui ha i capelli verdi (e piange, nel caso avesse deciso di optare last minute per il vecchio titolo).
Wolfgang Tillmans non è esattamente il primo fotografo che passava da quelle parti, ma è considerato uno degli artisti viventi più influenti tra quelli che lavorano con la fotografia. Ha iniziato ritraendo i suoi amici negli anni ’90, creando immagini che sono diventate emblema del clubbing e della scena gay londinese di quel periodo. Non a caso, è stato il primo fotografo a vincere il prestigioso Turner Prize nel 2000.
Non pago di aver lavorato con Tillmans a una bella copertina, Ocean ha avuto la non brillante idea di utilizzare come pezzo conclusivo del suo visual album Endless un brano inedito di Tillmans – tra l’altro senza chiedere il permesso. Device Control sono sette minuti (sette!) di sonorità techno che stridono con il resto del disco, ma per fortuna è l’ultima traccia. Per concludere questa collaborazione, Tillmans non ha esitato a rivelare a Pitchfork e a The Fader che lavorare con Frank Ocean è stato un incubo. Che Frank fosse tutto genio e folli scelte di marketing, lo avevamo intuito.
DRAKE / JAMES TURRELL
Ora torniamo indietro di un’estate. L’agosto del 2015 per me è stato il mese di Hotline Bling, una canzone che ho ascoltato per trenta giorni di seguito bruciandola così per il resto della vita. Nel video di Hotline Bling, oltre a tante signorine che fanno le centraliniste, c’è Drake in piumino che balla all’interno di spazi luminosi che variano di tonalità in modo graduale. Queste camere colorate somigliano tantissimo ai campi percettivi totali (Ganzfeld) di James Turrell.
Per fortuna, in molti si sono accorti dell’innocente quanto celato riferimento e anche i giornali meno inclini al gossip, dal Washington Post al Guardian, sono andati a bussare alla porta dell’ultrasettantenne sig. Turrell per chiedergli cosa ne pensasse del video di Drake. Da gran signore e grande artista qual’è, James Turrell si è detto lusingato dell’accaduto, aggiungendo di aver raggiunto l’audience più ampia a cui potesse aspirare proprio grazie al video, ma ha sottolineato di non essere stato minimamente coinvolto nel progetto.
Per trasformare questa storia a lieto fine in una storia surreale, vi ricordo che, poco più di un anno fa, l’attuale presidente degli Stati Uniti interpretava l’esattore delle tasse in una parodia del video di Hotline Bling al Saturday Night Live.
KANYE WEST / VANESSA BEECROFT E VINCENT DESIDERIO
Sempre tornando alla musica rap in relazione all’arte contemporanea, la collaborazione tra Vanessa Beecroft – performance artist italiana di stanza a New York – e Kanye West è ormai collaudata. Tutto ebbe inizio nel 2008, con una performance per la festa di lancio di 808s & Heartbreak, in cui una trentina di donne nude immobili vacillavano su scarpe dai tacchi a spillo. Nel 2010 invece, l’artista genovese ha diretto un cortometraggio di 35 minuti realizzato per il brano Runaway.
Per le ultime due stagioni della linea di abbigliamento di Kanye in collaborazione con adidas, Yeezy Season Three e Season Four, West ha scelto di presentare i suoi abiti organizzando due performance della Beecroft, che in un’intervista è arrivata a dichiarare “Considero il mio lavoro il suo. Credo profondamente nella sua visione”, riferendosi al musicista. Che poi si tratti di un’artista che, dal 1993, lavora sul corpo femminile oggettificandolo (c’è addirittura un saggio accademico sulla sofferenza delle modelle durante le sue performance) e di un musicista le cui liriche sono un concentrato di misoginia, beh, sorge il dubbio che Kanye si sia fermato a una lettura puramente estetica del lavoro della Beecroft, disinteressandosi agli aspetti di critica sociale (che ci sono) e alle sfumature meno immediate. Ma questa è un’altra storia. Il rapper di Yeezus lo si ama o si odia così com’è. Tra l’altro Rolling Stone potrebbe essere co-responsabile del delirio religioso di onnipotenza di Kanye, quando nel 2006 qualcuno dell’edizione americana ha pensato che fosse una buona idea farlo posare in copertina nelle vesti di Gesù.
E parlando di video, come non soffermarsi sul celeberrimo Famous, che ritrae West tra i suoi 12 apostoli nudi: Kim Kardashian, Taylor Swift, Rihanna, Amber Rose, Donald Trump, Caitlyn Jenner, Bill Cosby, Ray J, Chris Brown, Anna Wintour e George Bush. Il video, si sa, è ispirato al dipinto dell’artista americano Vincent Desiderio intitolato “Sleep”, decisione che potrebbe essere stata una scelta di ripiego nel momento in cui qualcuno ha suggerito a West che girare un banchetto ispirato all’ultima cena era un po’ troppo. L’ovvia conseguenza del citazionismo artistico di Kanye sono stati i 15 minuti di celebrità mainstream del pittore, che ne ha anche scritto in un articolo per W Magazine. E se pensate che il mondo scatti allo schioccare delle dita di Kanye, vi sbagliate. Vincent Desiderio, come da cognome, si è fatto desiderare e ci ha messo un po’ prima di accettare l’invito di West a Los Angeles per discutere i termini della collaborazione.
Sulla scia del successo del video, lo scorso agosto Kanye, in collaborazione con Kim Kardashian, ha organizzato una mostra privata da Blum and Poe, una galleria di Los Angeles, in cui l’unica opera esposta era l’installazione di cera creata per il video di Famous. L’opera, ovviamente, era in vendita. A quanto? Quattro milioni di dollari. Prezzo non così alto se si pensa che la produzione dovrebbe essere costata circa un milione.
Per parlare di tutte le collaborazioni di Kanye West sarebbe necessario un articolo a parte, quindi mi limiterò a ricordare quelle più riuscite: le cinque cover di George Condo per My Beautiful Dark Twisted Fantasy (2010) e la copertina disegnata da Takashi Murakami per l’album Graduation (2007). Ma se si parla di Yeezus e arte contemporanea, non si può dimenticare quella volta che Kanye regalò alla sua wifey una Birkin di Hermès dipinta per lei da George Condo. Per il tuo compleanno, perché limitarti a ricevere una borsa da 15.000 dollari, quando puoi avere la stessa borsa con un dipinto che ne vale milioni? Forse perché il risultato è questo.
JAY-Z / MARINA ABRAMOVIC
Poi c’è quella volta che Jay-Z è andato al MoMA e ha visto The Artist is Present, la performance di Marina Abramovic per cui l’artista montenegrina è rimasta seduta per tre mesi, sette ore al giorno, a guardare negli occhi i visitatori del museo. Il signor Carter dev’essere stato toccato così nel profondo dagli occhi di Marina da invitare un nutrito gruppo di amici alla Pace Gallery di New York per girare un video intitolato Picasso Baby: A Performance Art Film, aggiungendo la seconda parte del titolo per coloro che non avevano idea di chi fosse Marina Abramovic.
La collaborazione tra i due, in ogni caso, non avrà seguito. In un’intervista a Spike, Marina Abramovic ha dichiarato di essersi sentita usata da Jay-Z, mentre la collaborazione con Lady Gaga era stata appagante. Apprezzando lo sforzo di Jay-Z nel chiarire che lui sta al mondo della musica come Marina Abramovic sta al mondo dell’arte, è palese che il rapper di Brooklyn manca di visione artistica se paragonato all’universo visivo di Kanye West. L’aneddoto più interessante legato al video non ha infatti niente a che fare con l’arte: sono le foto di Jemima Kirke – la bionda protagonista di Girls – che, come posseduta, salta addosso a Jay-Z e viene costretta ad abbandonare il set.
I just want a Picasso in my casa, no, my castle
I’m a hassa, no, I’m an asshole
I’m never satisfied, can’t knock my hustle
I wanna Rothko, no, I want a brothel
[… ]
Jeff Koons balloons, I just wanna blow up
Condos in my condos, I wanna row of
Christie’s with my missy, live at the MoMA
Bacons and turkey bacons, smell the aroma
IN CONCLUSIONE
È arrivato il momento dell’album – o meglio, della cover – che ha dato vita a questo articolo. È la copertina del prossimo disco di Vasco Brondi / Le luci della centrale elettrica, in uscita il prossimo marzo, ricevuta via mail dal suo ufficio stampa, accompagnata da un testo del cantautore:
«Dalla prima volta che ho visto quest’opera su internet, qualche mese fa, ho capito che aveva a che fare con quello che stavo scrivendo. Si chiamano Seven Magic Mountains, sorgono nel deserto del Nevada, sono enormi e fosforescenti ma sono solo pietre accatastate l’una sull’altra. (…) È un’opera di Ugo Rondinone, un artista svizzero che vive a New York. La fotografia è di Gianfranco Gorgoni, originario di un paese che si chiama Bomba in Abruzzo, si è trasferito a New York negli anni Sessanta ed è diventato, tra le altre cose, un importante fotografo di Land Art, quando questa forma d’arte non aveva ancora un nome. Ho scoperto anche che era sul palco a Woodstock e sono sue le foto di Jimi Hendrix durante quel concerto e anche molti dei ritratti leggendari di Basquiat o di Keith Haring. Io avevo in casa una sua foto in cui c’erano uno accanto all’altro De Chirico ed Andy Wharol, due mondi distanti vicinissimi.»
Questi i casi più o meno felici, o comunque quelli in cui l’arte contemporanea e la musica hanno interagito in modo quantomeno interessante o divertente. Poi ci sono volte in cui l’accoppiata si trasforma in puro citazionismo, anche piuttosto scadente. Un esempio? Le grafiche ispirate a Keith Haring e Basquiat del video di Rude Boy, hit di Rihanna del 2010.
Ma anche quella volta in cui Ai Weiwei ha deciso di regalare al mondo la sua versione della coreografia di Gangnam Style di Psy. Ai Weiwei è un artista, attivista e dissidente cinese apprezzato per il suo impegno nella difesa dei diritti civili, come nel caso dei suoi recenti reportage fotografici che avevano lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla crisi dei rifugiati. Per questa e altre ragioni, internet non ha bisogno di video in cui Ai Weiwei balla il Gangnam Style con indosso una maglietta rosa fluo.
Per chiudere in bellezza, ricordiamo il capolavoro dei capolavori, forse la copertina più innovativa di sempre, la cui genialità sta nella sintesi. Qual’è l’unico album dei Beatles che non ritrae la band in copertina? Il White Album! No, il titolo è The Beatles, ma ha una cover talmente geniale che preferiamo chiamarlo citando il non-colore della sua non-copertina.
La genialità di Richard Hamilton, l’artista che ha concepito l’apparato visivo dell’album, non è solo nella semplicità dell’idea, ma sopratutto nei dettagli. Il nome della band, che è anche il titolo del disco – per sintetizzare il più possibile le informazioni – era stampato in rilievo e aveva un numero di serie unico per creare, citando Hamilton, “l’ironia di un’edizione numerata in qualcosa come cinque milioni di copie”. Salutando così la pop art e anticipando un movimento che si stava affermando in quegli anni – quell’arte concettuale tanto cara a Yoko Ono.
Personalmente, il lavoro di Richard Hamilton che preferisco s’intitola Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing? (traducibile in Che cosa rende esattamente le case moderne così diverse, così attraenti?) ed è squisitamente pop. È un collage del 1956 e viene spesso citato fra le testimonianze più rappresentative della pop art. Un insieme d’immagini interpretabile come la sintesi visiva del contenuto di questo breve excursus nel binomio tra arte contemporanea e musica, sicuramente un’ispirazione per l’ultima tappa video del viaggio, Champagne Coast di Blood Orange.