C’è uno sguardo che sembra attraversare tutto il Novecento americano, filo teso tra disperazione e speranza. È quello della Migrant Mother, volto-simbolo della Grande Depressione, ritratto nel 1936 da Dorothea Lange in una tenda da campo a Nipomo, California.
Un’icona, riprodotta infinite volte, quasi quanto il volto di Che Guevara o Marilyn, e che ora finisce nelle sale del Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano, teatro dell’antologica che ripercorre la carriera di una delle artiste americane più incisive del secolo scorso. Curata da Walter Guadagnini e Monica Poggi, l’esposizione presenta, dal 13 maggio al 19 ottobre, un centinaio di opere provenienti dall’Oakland Museum of California e dalla Library of Congress di Washington, disegnando un percorso dove il racconto per immagini si trasforma in gesto politico.

Foto: press
Lange ha documentato l’America negli anni più duri: dalla crisi del 1929 alla Dust Bowl, dalla segregazione razziale nei campi di cotone agli internamenti della popolazione nippo-americana durante la Seconda Guerra Mondiale. Lo ha fatto con lo sguardo di chi non giudica, ma registra. E benissimo. «La macchina fotografica», diceva, «è uno strumento per imparare a vedere senza una macchina fotografica».
La mostra parte dagli anni Trenta. Dorothea, che a inizio carriera fotografava signore ben pettinate nel suo studio di San Francisco, a un certo punto capisce che là fuori c’è qualcosa che brucia. E decide di uscire. Si lascia alle spalle fondali in velluto e luci da ritrattista per infilarsi nel cuore polveroso dell’America in ginocchio. È il tempo delle code per il pane, degli uomini con lo sguardo perso e le mani in tasca, delle famiglie smembrate dalla povertà.
È il 1935 quando parte con Paul Taylor, economista che poi diventerà suo marito, per documentare le tempeste di sabbia del Dust Bowl e la miseria dei braccianti agricoli devastati dalla siccità. Quelle stesse figure che Steinbeck trasformerà in letteratura in Furore, e John Ford in immagini per il grande schermo. Lange darà loro carne, ossa e rughe. È in questo periodo che, tra i fienili crollati e i campi secchi, nasce il ritratto che identificherà la sua opera: un volto incorniciato da due bambini che si rifugiano sulle sue spalle. La donna non ha un nome, o meglio, lo avrà solo dopo. Si chiamava Florence Owens Thompson. Ma all’epoca era semplicemente “la madre migrante”. Tutte le madri, nessuna madre.

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Per la fotografa è quasi una missione. Immortala mani spaccate, vestiti rattoppati, sguardi pieni di dignità. Collabora con la Farm Security Administration, l’agenzia del New Deal rooseveltiano che prova a raccontare e correggere le storture di un sistema che si è appena sbriciolato. Va a caccia di volti nei campi di cotone del Sud, tra i raccoglitori di piselli della California, tra chi ha perso tutto ma ancora tiene duro. Non si limita a scattare: ascolta, scrive, annota. Ogni sua foto è accompagnata da didascalie lunghissime, quasi fossero piccoli racconti.
Un secondo potente nucleo della mostra milanese si concentra sugli anni della Seconda Guerra Mondiale: nel 1941, dopo Pearl Harbor, gli Stati Uniti si battono per la libertà nel mondo e decidono di internare i propri cittadini di origine giapponese in campi recintati. Lange riceve un incarico ufficiale per documentare l’operazione. Pur in disaccordo con la politica del governo, accetta di raccontare questo scempio democratico. E lo fa come sa: restituendo dignità ai volti anonimi nascosti dietro il filo spinato. Le sue immagini – ovviamente mai pubblicate all’epoca – mostrano la disumanità di un sistema che allontana famiglie intere dalle proprie case e le rinchiude in baracche. Istantanee sobrie, asciutte. Sono forse le sue opere più radicali.

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Fisiologico, quasi ai limiti del banale, il collegamento tra quei volti dolenti e quelli dei migranti contemporanei, ripresi nei barconi del Mediterraneo o nei campi profughi lungo i confini d’Europa. Già, perché qualcosa nella fotografia di Dorothea Lange va oltre la denuncia sociale. È uno sguardo umano, empatico. Un desiderio potente di dar voce all’altro per non farlo scomparire nel rumore di fondo delle notizie. «Ogni individuo ha una storia, e ogni storia ha il suo peso», raccontava l’artista, resa epica non solo dal suo lavoro ma anche dalla sua biografia personale, simile a un romanzo.
Nata nel New Jersey nel 1895, si avvicina alla fotografia poco meno che ventenne quasi per caso. Studia con Clarence White, apre uno studio di ritratti e poi cambia vita, e quindi sguardo. Viene arruolata dalla FSA, riceve un Guggenheim nel 1941, lavora diversi anni per la rivista Life e insegna presso l’Art Institute di San Francisco. Nel 1965, a una manciata di mesi dall’apertura della grande mostra che il MoMA le sta per dedicare, scompare.

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Negli ultimi tempi, dopo anni di torpore ingiustificato, si è registrata una riscoperta del suo lavoro. Fra le esposizioni più recenti si ricordano Politics of Seeing al Jeu de Paume di Parigi nel 2018 e Words & Pictures al MoMA nel 2020. Ma sono state davvero moltissime le istituzioni che hanno scelto di rimettere in circolo le opere di questa gigantessa della fotografia. Un po’ perché Dorothea era davvero un fenomeno, e un po’ perché, in un’epoca in cui le immagini spesso ci scivolano addosso senza lasciar traccia, i suoi scatti in bianco e nero sono un richiamo a guardare più a fondo, a fermarsi e riflettere su ciò che si nasconde dietro ogni volto e ogni scorcio di mondo.