Quello della ripetitività è uno dei temi cardine della contemporaneità. Soprattutto attraverso la tecnologia, l’abitudine è un meccanismo che ci fagocita e ognuno di noi aspira a una vita sorprendente e non monotona. Il tema del loop è proprio il centro della mostra AGAINandAGAINandAGAINand appena inaugurata al MAMbo di Bologna, museo che sta conquistando posizioni grazie a un giovane direttore che spacca di brutto (giovane… vabbé lo dico perché in Italia si è giovani fino ai 50, quindi sotto i 40 lo possiamo dire senza che nessuno contesti).
Sette artisti, sette supestar del panorama contemporaneo internazionale mettono in scena un’esposizione molto coinvolgente, con i mezzi e gli approcci più diversi. Il percorso è davvero suggestivo, perché tra tele, video e installazioni tocca i nervi scoperti di ognuno di noi, mostrandoci gli ambienti e gli aspetti più spinti dell’alienazione contemporanea. Viviamo ritmi che non ci appartengono e realtà che non sono affatto libere: i quadri del greco Apostolos Georgiou giocano sull’ambiente domestico, con esseri umani intrappolati nella quotidianità, nel modello di famiglia perfetta, come occidente comanda. Naturalmente il mezzo video è molto usato ed è inquietante il trittico di Ed Atkins, che ha creato un suo personale avatar che vaga come uno zombie in un aeroporto e mette sul nastro trasportatore, oltre a armi, taglierini e altri oggetti pericolosi: una mano, un piede, un pezzo di faccia. Luca Francesconi, che è un bravissimo artista italiano, da anni porta avanti un lavoro sull’agricoltura, la prima disciplina che ha insegnato l’importanza della ciclicità agli esseri umani, e lo fa con alcune sculture dal sapore “giacomettiano” che al posto della testa hanno verdura. A guardarli bene, non sono tutti sullo stesso piano, ma c’è un caporale che si impone sui braccianti, in una costruzione drammatica come lo è questa pratica oscena.
E ancora Cally Spooner con un video che ci dice che sport, lavoro e romanticismo sono solo modi di comunicare, Apichatpong Weerasethakul che ci svela il più religioso dei loop, quello della reincarnazione, oppure Susan Philipsz a farci rivivere lo spaesamento continuo di uno straniero che arriva in una terra che non conosce. Dobbiamo dire che però l’installazione più forte, probabilmente per la sua scenografia imponente, è quella di Ragnar Kjartansson: nella più bella delle sale del MAMbo è stata riprodotta una porzione a dimensioni originali di un villaggio francese. Le case hanno una parete mancante, che ci consente di sbirciare cosa succede dentro. L’atmosfera è quella degli anni ’50 e una performance infinita va avanti dal momento in cui il museo apre, fino a quando chiude. Una ragazza si aggira allegra per casa con in mano un vaso e in sottofondo si sente La Mer di Charles Trenet, che va (in loop, naturalmente) su un giradischi. Poi scende le scale, si reca alla fontana per riempire il vaso d’acqua mentre un giovane esce dall’abitazione vicina, dove beve vino o strimpella qualche nota al pianoforte, e accendendosi una sigaretta dice “Bonjour”. “Bonjour”, le risponde timida la ragazza, che rientra. Ecco questa scena dura circa cinque minuti ed è magnetica, romantica, identica ogni volta, ma sempre diversa. Non sono l’unico ad averla vista almeno dieci volte.
Bologna è bella, bellissima, ma ha un rapporto complicato con l’arte contemporanea. Allora un applauso a Lorenzo Balbi, che con l’aiuto di Sabrina Samorì ha curato una mostra di livello, senza complessi, senza approcci troppo elucubrativi, ma con una profondità sofisticata. Quando andrete a vederla, fate un salto anche al primo piano, dove c’è la collezione permanente del museo che non è niente male.