Apre al pubblico la cinquantasettesima Biennale d’Arte di Venezia: 85 Paesi di tutto il mondo sono arrivati in laguna per mostrare i gioielli di famiglia e il risultato è come sempre emozionante. Ma andiamo subito al dunque, a ciò che vogliamo raccontarvi: il Padiglione Italia è una figata pazzesca. Perdonerete questa punta di patriottismo, ma è un’occasione più unica che rara poter dire durante la kermesse artistica più importante al mondo che gli italiani sono i migliori. Non è questione di tifo, perché l’arte non ha bandiere e forse ha sempre meno senso l’impostazione dei padiglioni nazionali, però c’è soddisfazione nel vedere che abbiamo colmato quella distanza che c’è da tempo tra noi e gli altri Paesi. La curatrice è Cecilia Alemani, milanese del 1977 e curatrice della high line di New York, ferrovia sopraelevata diventata un museo a cielo aperto che fa più visitatori del MOMA. Quando entriamo nel Padiglione lei è lì, luminosa ed emozionata, che insegue i vigili del fuoco per assicurarsi che non ci siano problemi, finché qualche collaboratore le dice “Cecilia no, almeno di questo non te ne devi occupare”. Ha scelto come nome “Il mondo magico”, che prende ispirazione dall’omonimo libro dell’antropologo napoletano Ernesto de Martino, pubblicato subito dopo la seconda guerra mondiale e dedicato allo studio della magia come strumento attraverso il quale varie culture e popolazioni reagiscono a situazioni di crisi e all’incapacità di comprendere e dare forma al mondo. Gli artisti invitati sono tre: Adelita Husni-Bey (1985), Giorgio Andreotta Calò (1979) e Roberto Cuoghi (1973).
Sembra davvero un’atmosfera magica, mistica. Forse spettrale. Entrando c’è un grande tunnel gonfiabile, in plastica, e nelle sue ramificazioni si possono trovare vari “corpi di Cristo” aggrediti da muffe, batteri, temperature estreme. Queste figure col passare del tempo sono sempre più difformi l’una dall’altra. Dunque l’artista ha visualizzato e definito un oggetto, per poi crearne un altro, che va oltre la vita dello stesso artista. Adelita Husni-Bey invece sceglie di recuperare l’esperienza narrativa, spiegandoci un mondo stregato più che magico. Giorgio Andreotta Calò infine compie l’incantesimo di presentare un mondo al rovescio. La Alemani è riuscita nell’impresa impossibile di offrire un punto di vista sofisticato e finalmente all’altezza della Biennale.
E se le Istituzioni sapranno capire che oggi la generazione dei 30enni e 40anni curatori italiani ha davvero qualcosa da dire nel mondo, offrendo loro la possibilità di farci uscire da una situazione di stallo che dura da troppo, potremo tornare a occupare un ruolo di tutto rispetto nel panorama internazionale dell’arte contemporanea. Spetta a loro fare sistema e alzare la voce, e giusto per non fare nomi, sto parlando di persone che oggi hanno ruoli e posizioni dalle quali possono farsi davvero sentire: Francesco Manacorda alla Tate di Liverpool, Vincenzo De Bellis al Walker di Minneapolis, Massimiliano Gioni al New Museum, Andrea Bellini al Centre d’Art Contemporain a Ginevra, Francesco Stocchi al Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, Luca Lo Pinto alla Kunsthalle di Vienna, Ilaria Bonacossa ad Artissima, Alessandro Rabottini a MiArt, Lorenzo Balbi al MAMbo e molti altri che in questo momento non ci vengono in mente, oltre alla Alemani alla High Line naturalmente.
Sia ben chiaro che è una questione di affinità, non di giovanilismo, perché se l’arte non ha confini non ha nemmeno età. Per dimostrarvelo vi diciamo che una delle mostre imperdibili durante la Biennale è quella di Michelangelo Pistoletto alla Basilica di San Giorgio, perché a 84 anni lui resta comunque un ragazzo. Un po’ invecchiato, ma sempre divertente, è invece Damien Hirst, che a Palazzo Grassi e Punta della Dogana con la sua ‘Treasures from the Wreck of the Unbelievable’ ci racconta la storia dell’antico naufragio della grande nave
‘Unbelievable’ e ne espone il prezioso carico riscoperto: l’imponente collezione appartenuta al liberto Aulus Calidius Amotan, conosciuto come Cif Amotan II, destinata a un leggendario tempio dedicato al Dio Sole in oriente. Una mostra totalmente folle, che come reliquia appena recuperata dagli abissi ci fa vedere da Mowgli sulla pancia di Baloo ai Trasformer.
Venendo invece alla parte centrale della Biennale, l’esposizione internazionale firmata dalla francese Christine Macel, va detto che non ha cercato di essere ruffiana, dando poco spazio alla spettacolarizzazione che spesso fa sembrare le mostre alla stregua di un circo. Viva Arte Viva conta 120 artisti divisi in sezioni dedicate al tempo, ai colori, ai libri. Tra i padiglioni nazionali sensazionale quello della Germania, che ha scatenato ire e querele da parte degli animalisti, che mal sopportano il fatto che insieme agli artisti siano chiusi in una teca (che in realtà è una grande stanza, tranquilli) alcuni doberman che fanno parte della performance. I tedeschi sono così, quando si tratta di arte si rinchiudono con qualche animane, e non con un chihuahua o un bassotto. Vedere per credere, andate a cercare le immagini di quando Joseph Beyus nel 1974 portò in una galleria di New York un coyote, con il quale prese confidenza solo dopo giorni di convivenza, non prima che l’animale tentasse di sbranarlo.
Degni di nota anche il Padiglione Francia, che ha ricreato una grande scatola acustica in legno nella quale si può naturalmente entrare, o quello del Cile, con 1500 maschere che parlano dell’annientamento etnico e culturale di una comunità. Impossibile comunque tentare di fare una sintesi, perché le partecipazioni nazionali sono 86, sparse tra Giardini, Arsenale e il centro storico di Venezia. Tutti vogliono esserci, infatti ho visto padiglioni di nazioni che io non avevo mai nemmeno sentito nominare, come il neo arrivato Kiribati (oh, ora non me ne voglia quella vecchia quercia del Presidente del Kiribati Taneti Mamau, perché ora grazie alla Biennale e anche un po’ a wikipedia conosco il suo nome e so che governa uno stato di 808 km², 103.000 abitanti, capitale Tarawa Sud).
La Biennale sarà aperta al pubblico fino al 26 novembre, mentre oggi abbiamo saputo che l’ambitissimo Leone d’Oro per il migliore artista è andato a Franz Erhard Walther e quello per la miglior partecipazione nazionale è andato alla Germania. Noi speravamo andasse diversamente: no, non tifavamo per il Kiribati, ma per il Mondo Magico di Cecilia Alemani. Ma va bene così, perché sappiamo di avere fatto un’ottima figura. Ci rivediamo tra due anni.