Incontro Damien Jalet in videochiamata in una pausa pranzo infrasettimanale: temevo di trovare un vip in overstress post Oscar, invece, come spesso succede con i veri fighi, lo trovo rilassato nel suo appartamento, in abiti comodi e con un viso solare e sorridente. Capisco subito che sarebbe partita una bella chiacchierata con il coreografo più in vista del momento, preso in un momento di pausa dopo i due Oscar al film Emilia Pérez , di cui ha curato le sequenze di danza, e prima di rimettersi al lavoro sulle imminenti première in teatro di maggio e giugno, con Mirage e Thrice rispettivamente.
Jalet è fra gli artisti del movimento più poliedrici, capace di spaziare dal teatro al cinema, dall’opera all’arte visiva, mantenendo il comune denominatore di una danza che attrae, seduce e cattura lo spettatore, qualunque sia la forma. Fra uno spoiler sull’ultimo set cinematografico e qualche curiosità sulle amiche Marina Abramović e Madonna, chiedo a Damien di raccontarci come si sta, a essere Jalet.

Damien Jalet. Foto: Rahi Rezvani
Partiamo da tempi recenti: hai coreografato le scene di danza di Emilia Pérez. Com’è nata l’idea, com’è stato far ballare gli attori?
Era il 2021 quando incontrai Jacques in Messico e iniziò a parlarmi dell’idea di questo lavoro, che all’inizio non doveva essere un film ma un’opera. Jacques era molto attratto dall’idea di realizzare qualcosa di mai fatto prima, voleva mettersi in gioco totalmente per inventare qualcosa di nuovo: all’inizio la danza la escludeva perché aveva paura di arrivare a un prodotto simile al musical, troppo artificiale e in qualche modo finto. Abbiamo continuato a confrontarci sul progetto per quasi due anni, Jacques via via realizzava che la danza avrebbe invece potuto dare una voce ulteriore ai personaggi del film e farli esprimere al massimo della loro potenza, per cui poco prima di iniziare le riprese mi ha affidato il compito di curarne le scene.
All’inizio mi sono trovato in una posizione non troppo divertente! La musica e le battute erano già scritte e non modificabili, degli attori, a parte Zoe Saldaña, nessuno era formato nella danza, quindi mi sono ritrovato a dover ricercare un linguaggio nuovo anche per me, molto più narrativo rispetto al mio solito, che desse ulteriore pregnanza a ciascun personaggio senza diventare decorativo. È stata una vera sfida, ma ora possiamo dire che n’è valsa la pena.

‘Through’. Foto: GTG / Gregory Batardon
Quando crei, qual è il tuo momento preferito? L’ideazione, le prove in sala o la fine?
Quando la gente applaude! Scherzo, diciamo che la parte che preferisco meno è la prima settimana di prove, quando ancora non esiste nulla e devi convincere le persone che dovranno lavorare con te con la sola forza delle tue parole ad andare in un luogo in cui non sono mai andati prima. I performer arrivano con le loro fragilità e i loro dubbi, ma tu devi gettare le basi per creare il momentum, cioè la fase in cui inizia a esistere una base coreografica nei corpi dei danzatori, che da lì in poi inizierà ad andare verso la forma finale che ti eri immaginato. Qui, finalmente, non è più tutto nelle tue mani ma inizia a dipendere anche da chi interpreta il lavoro con il proprio corpo. Questa è fra le fasi più belle. La fine anche è molto esaltante, è un altro punto difficile perché non arriva mai come e quando vuoi tu ma in tempi molto precisi e prestabiliti, il che a volte è stressante. Quindi, per rispondere alla tua domanda, la fase che preferisco è l’ideazione prima di tutto, quando nella mente nasce un’idea, un’immagine, un pensiero che pulsa e che ritorna continuamente, come stessi sognando da sveglio: così inizio a fare connessioni e a delineare il nuovo progetto, il che mi dà una sensazione di costante eccitazione.

Foto: Shanna Besson
Per un coreografo essere famoso non è di certo la norma, tu sei un’eccezione. Come ti vivi la fama?
Fama è un concetto vago, a dire il vero. E anche del tutto relativo. Ho lavorato con alcune delle donne più famose del mondo, tipo Madonna e Selena Gomez, penso che loro possano raccontare davvero che cosa sia la fama, soprattutto quanto essa possa essere limitante, a volte una gabbia. In confronto io mi considero quasi uno sconosciuto: si può dire che il mio lavoro è stato visto dal grande pubblico avendo lavorato per il cinema o al tour di Madonna, tuttavia il ruolo del coreografo, anche in queste grosse produzioni, passa sempre un po’ in sordina.
Ho sempre pensato che quello che faccio è un lavoro talmente di nicchia e talmente specifico che non sarei mai riuscito a raggiungere un pubblico vasto, ora immagino che le cose stiano cambiando perché vedo sempre più persone in sala per le mie performance. I social network sicuramente possono essere un ottimo mezzo per condividere la propria arte e il proprio mestiere se lo si fa con onestà e cura, anche se a volte succede che le persone pensino di conoscere il tuo lavoro da lì, senza averlo esperito realmente. Come artista e creativo credo di avere un desiderio molto comune, cioè di condividere il mio lavoro con più persone possibile: il fatto di essere piuttosto conosciuto mi permette questo, il che per me è quasi un piccolo miracolo.

‘Skid’. Foto: GTG / Gregory Batardon
A proposito di connessioni, tu e Marina Abramović avete una bella storia di collaborazioni: come è nato tutto?
Ci siamo conosciuti a Roma nel 2005 quando è venuta a vedere uno dei miei lavori con Sidi Larbi Cherkaoui: è stato immediato, ci siamo piaciuti e da lì abbiamo iniziato a tenerci in contatto e a scambiarci idee e punti di vista su tutto, fino a quando nel 2012 abbiamo lavorato insieme alla prima creazione condivisa (fra tutti e tre, nda), un Bolero all’Opera di Parigi. Marina è una persona molto divertente e con un grande humour, mi piace parlare con lei e scambiarmi idee, anche perché è molto curiosa, adora esplorare il lavoro di artisti giovani e farsi continuamente ispirare.

‘Planet [wanderer]’. Foto: Rahi Rezvani
Un altro progetto fatto insieme a Marina e Sidi Larbi è l’opera Pelléas et Mélisande, debuttata ad Anversa nel 2018. Come ti trovi a lavorare nell’opera lirica, che talvolta è ancora considerata la forma massima di teatro?
Sì, molti la considerano così in quanto forma di teatro capace di connettere tutti i linguaggi, cioè canto, musica e danza, ma questo non è aderente alla realtà. Per me oggi quella funzione la ricopre la danza, che è un effettivo connettore di tutti i linguaggi della scena. Lavorare nell’opera non è la cosa che preferisco fare perché c’è poca possibilità di sperimentazione: tutto dipende dalla musica e da un’idea registica non modificabile, per cui la danza diventa una forma di esercizio, cerco infatti di trovare il modo di essere più espressivo possibile attraverso i movimenti pur dovendo rimanere in un tracciato molto ben stabilito. Paradossalmente trovo molta più libertà espressiva nel cinema, nonostante sia un altro settore estremamente costoso, proprio come l’opera, e di conseguenza pieno di pressioni. L’altra cosa che non adoro dell’opera è che si rivolge a un gruppo molto chiuso ed elitario, per accontentare il quale perpetua una serie di convenzioni e tradizioni a prescindere dalla loro effettiva valenza scenica.

‘Skid’. Foto: GTG / Gregory Batardon
Il progetto più stimolante?
Che diamine di domanda mi fai, è come se mi chiedessi di scegliere solo uno fra tutti i figli! Se penso allo stimolo, alla portata immensa del progetto e alla relativa sfida (da pazzi!) che ha costituito realizzarlo, ti direi Chiroptera, con JR all’Opera di Parigi. Quello è stato un esperimento massimo, per il quale ho sentito brividi notevoli, avevamo un’esposizione gigantesca su una cosa che non è praticamente mai stata provata sul set. Sicuramente è stato il lavoro che mi ha più messo alla prova.
Il collaboratore che ti ha ispirato di più?
Per una questione di connessione e sensibilità comune sicuramente Kohei Nawa, è praticamente mio fratello gemello. L’altra persona è Aimilios Arapoglou, mio compagno nella vita e nel lavoro da tredici anni.

‘Mirage’. Foto: GTG / Gregory Batardon
Quale consiglio daresti a un giovane che vuole fare il coreografo nella vita?
Tieni viva la passione e proteggi il tuo talento. Individua che cosa tiene accesa la tua fiamma e continua a cercare quella cosa, continua a credere nel tuo talento anche se i successi non arrivano subito, perché il talento è come fosse una pianta appena nata, devi cercare di creare intorno a te un contesto che possa farla crescere, e per farlo devi resistere anche quando non sta arrivando quello che avevi immaginato. Non c’è un modo giusto per arrivare al successo in ciò che si fa, nella danza poi ci sono una serie di vecchi preconcetti tipo la competizione, cosa che trovo così retrograda, che vengono inculcati nei danzatori fin da bambini: non esiste una regola o una strada univoca, l’importante è portare avanti ciò in cui si crede, nel modo più sincero e unico possibile, e cercare di connettersi con altri per i quali si ha stima e con cui puoi unire le forze. Per me trovare le giuste connessioni è stata la chiave del successo, dance is not a solo trip.