Essere CHEAP: storia e presente del collettivo che ha riscritto la public art | Rolling Stone Italia
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Essere CHEAP: storia e presente del collettivo che ha riscritto la public art

From Bologna with love: abbiamo chiacchierato con la co-fondatrice di CHEAP Sara Manfredi per fare il punto sul progetto a dieci anni da che è iniziato tutto. E, sì, piccola anticipazione: c'è ancora molto da dire

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Credits: Margherita Caprilli

A essere donne per strada, la notte, finisce male. Questa è la favola della buonanotte propinata a tutte le bambine, e questo – la presenza anche fisica della donna nella società, la sua capacità di azione indipendente e libera di volere – è ciò da cui CHEAP parte per ribaltare la vulgata e reclamare uno spazio vivo per i corpi. Femminili, certo, poi si spazia, sempre nell’ottica dell’inclusione e della diversità.

CHEAP è un collettivo bolognese, progetto di public art fondato da sei donne nel capoluogo emiliano nel 2013. Usa la carta per la sua indagine perché – come si legge sul loro sito web – non c’è niente di più effimero. Nello specifico, perché CHEAP vuol dire attacchinaggio, manifesti appesi proprio di notte e proprio da donne. Li conoscete, probabilmente, li avete visti: compaiono per le strade con grafiche colorate, acchiappa-occhio, e lettere che compongono scritte come “Design the end of patriarchy”, “Nella distanza di questi giorni, noi siamo a due passi dall’eternità” (frase della poetessa Patrizia Cavalli), “Nessuno mette i figli su una barca, a meno che l’acqua non sia più sicura della terra” (citazione di Warsan Shiree, scrittrice e attivista).

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Credits: Margherita Caprilli

CHEAP vuole, in sostanza, bucare e bucarvi, instillando il germe di una domanda nelle certezze culturali di cui siamo costruiti, e di cui la città si rende manifestazione nel suo ordine ideale. Una storia che è stata da poco raccontata anche dal volume Disobbedite con generosità, pubblicato da People.

Così, a più di dieci anni di attività del collettivo, abbiamo chiacchierato con Sara Manfredi, co-fondatrice, per farci raccontare che cosa succede dopo una decade di attività.

«Cheap è nata nel 2013 come festival. Da un lato invitavamo artisti a realizzare opere site-specific in varie zone della città, cercando di farli ambientare nello spazio in cui si inserivano, capire chi li attraversava, chi ci abitava e lavorava. Era un lavoro piuttosto complesso. Dall’altra parte avevamo una call for artist annuale, l’abbiamo sempre lanciata con un tema e negli anni abbiamo raccolto migliaia di poster da tutto il mondo, da artisti che si occupavano delle forme di espressioni visiva contemporanea più disparate. Questo è stato per 5 edizioni consecutive».

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Credits: Margherita Caprilli

E poi?

«Poi ci siamo accorte che il paesaggio umano e artistico attorno a noi era cambiato tantissimo. A Bologna era successo l’affaire-Blu [nel 2016, lo street artist considerato “il Banksy italiano” per i suoi murales aveva protestato contro la volontà di un’istituzione privata di staccare le sue opere dai muri della città per inserirle in una collezione in mostra, ndr], che ha portato alla cancellazione di tutto il lavoro svolto su Bologna dall’artista negli anni. Ci ha impartito una lezione esemplare sia a livello di che cosa sia lo spazio pubblico, sia su che cosa voglia dire abitare una città, quale sia la visione condivisa di una città, oggi. Questo, insieme ad altre coincidenze storiche, ci hanno fatto riposizionare, sia rispetto al contesto che al nostro format, alla nostra pratica. Abbiamo “sciolto nell’acido” il festival e siamo diventate un laboratorio permanente, scendiamo in strada quando e come vogliamo. Del vecchio modello abbiamo mantenuto solo la call for artists, che agisce ancora sulla forma di una città sul suo ordine costituito. Arrivare con centinaia di manifesti in una città, una volta l’anno, significa creare un varco, aprire spazio per visioni che arrivano da tutto il mondo e che aprono nuove prospettive semantiche. A questo non rinunciamo, il resto trasforma».

Sembra dimostrarlo un recente episodio avvenuto nelle scorse settimane: una serie di otto cartelloni realizzati da CHEAP insieme all’artista salvadoreña Johanna Toruño e componenti la scritta “Free Gaza” sono stati attaccati da qualche anonimo per cancellare la parola “Gaza” (si è anche tentato di produrre una X sopra la scritta “Free”, con scarsi risultati). Il gesto, segnalato dalla community di CHEAP, aveva portato il collettivo a rimandare in stampa i manifesti con le lettera della parola, così da riaffermare la volontà di pubblicazione nello spazio pubblico. Ma, quando le ragazze sono arrivate sul posto, qualcuno ci aveva già pensato, la scritta Gaza era ricomparsa: un gesto di conflitto (prima) e cura (dopo) che ha aperto uno spazio di confronto nuovo all’interno della città.

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Courtesy of CHEAP

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Courtesy of CHEAP

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Courtesy of CHEAP

 

«Negli anni abbiamo voluto sottolineare con forza che le città non sono luoghi neutri, bensì organici, dove si sperimentano dinamiche di espulsione privilegio  che hanno a che fare con il genere, la “razza” e la classe. E che, a livello simbolico, gli spazi urbani sono attraversati da direttrici che mostrano, che rendono fisiche queste dinamiche. Quindi quello che CHEAP vuole fare è creare immaginari contro-egemonici, rimettere al centro ciò che da questa conversazione visiva nello spazio pubblico è stato bandito: corpi non etero-normati, corpi desideranti e non desiderati, corpi razzializzati e imprevisti, che non seguono le regole del male gaze. Vogliamo rimettere al centro comunità che non sono comprese nell’ordine simbolico dello spazio pubblico. Almeno, ci proviamo. Dicono che a volte ci siamo riuscite».

Continua Manfredi:

«Girare di notte, in città, come uno squat di sole donne vuol dire stravolgere tutto, chiunque sia stata socializzata come donna e ragazza “sa” che la notte non si deve uscire, specie se da sole. Noi usciamo eccome, lo facciamo in tante, e occupiamo la città, la attraversiamo e le cambiamo i connotati. Non siamo spaventate, è come un incantesimo. Fare questo naturalmente rompe degli equilibri, e questo spesso ha comportato lo scoperchiamento di alcune cloache umane. Come dice anche uno dei nostri poster: haters are gonna hate. Ci arrivano valanghe di insulti e minacce online, accuse, di qualsiasi tipo. Per fortuna arrivano anche supporto e riconoscimento, anche a livello pratico e oltre i confini di Bologna. La marea nera è sempre ridimensionata».

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Credits: Margherita Caprilli

E in merito al passato, a progetti di cui il collettivo è andato particolarmente fiero: 

«Non ce n’è solo uno, penso per esempio a La lotta è fica, giugno 2020, il primo progetto dopo il lockdown, tornare insieme in strada con un progetto collettivo di 25 artiste impegnate a celebrare le lotte del femminismo è stato importante, bellissimo. Sapevamo che dalla crisi che avevamo appena vissuto ci sarebbero state conseguenze pesanti per le donne, tra tagli a servizi assistenziali, violenza domestica e licenziamenti. Questo è solo un esempio, anche se incisivo e importante. Quello che cerchiamo di fare è leggere il momento storico».

Che cosa riserva invece il futuro di CHEAP?

«A settembre usciranno i risultati della call for artists che abbiamo tenuto aperta da gennaio e che si chiuderà a luglio. Faremo cambiare di nuovo il volto di Bologna. Su novembre invece avremo un altro progetto, è un mese importante per le lotte femministe, e quest’anno supporteremo il messaggio con un progetto speciale. Ma di più, per ora, non posso rivelare».

Guarda qui sotto il video in anteprima dell’ultima azione realizzata da CHEAP insieme a Johanna Toruño – The Unapologetic Street Series (video di Francesca Gallina):