Chi non vorrebbe avere vent’anni? Probabilmente solo chi vent’anni li ha oggi. E non solo perché i tempi sembrano apparire più temibili di prima, ma perché chi oggi quell’età l’ha superata ampiamente tende a rimuovere la fatica e il dolore anche fisico e quasi ancestrale che comporta uscire sempre e comunque violentemente dal momento sognante e privo di confini che fu l’infanzia.
Avere vent’anni è aver compiuto un delitto per cui si è puniti con l’uscita dal paradiso terrestre. Si vive così nella consapevolezza di un futuro obbligato, ma anche nella totale inconsapevolezza di un presente avvertito senza strumenti e solo con un istinto difficile da dosare.
Tuttavia intitolare Avere vent’anni la nuova edizione di Fotografia Europea 2025 sembra più che altro tipico di una società drammaticamente invecchiata, fosse anche solo per un esergo non troppo esaltante e ancor meno originale come quello tratto da Paul Nizan: «Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita». Il grido Ehi Boomer! rimbomba nelle menti degli astanti, tuttavia quanto elaborato dai tre curatori, Tim Clark, Walter Guadagnini e Luce Lebart promette ben di più e ben meglio di una cornice che, per quanto necessaria, risulta estremamente didascalica.
Dal 24 aprile sarà dunque possibile vivere la nuova edizione di Fotografia Europea, a Reggio Emilia, godendosi la primavera padana e in particolare l’esposizione – tra le altre – Daido Moriyama: A Retrospective, dedicata al più importante fotografo giapponese vivente. Esponente e innovatore della cosiddetta street photography, Moriyama ha dato corpo a un catalogo/archivio del Giappone moderno e dell’essere giapponese, inteso come anima e categoria.
Organizzata dall’Instituto Moreira Salles in collaborazione con la Daido Moriyama Photo Foundation, la retrospettiva ha richiesto tre anni di lavoro e rappresenta la prima vera occasione di comprendere la complessità e la stratificata qualità del fotografo giapponese in Italia. Figlio della generazione post-nucleare, Moriyama ha ritratto l’uscita dalla guerra e il boom economico che ha trasformato radicalmente il Giappone. Ispirandosi agli stilemi della pop art di Andy Warhol e all’action-photography di un grande outsider come William Klein, Moriyama ha ritratto la complessità colorata e anche crudele di un consumismo capitalista che ha mutato nel profondo, e antropologicamente, l’anima giapponese. Moriyama ha reagito a questa evoluzione con una produzione fortemente innovativa e originale giocando con gli ingrandimenti, i ritagli e la risoluzione delle immagini. Tutti elementi di cui la retrospettiva – alla sua prima tappa italiana a Reggio Emilia – dà ampio spazio. Nella sua indagine, che intreccia la teoria della riproducibilità tecnica con il consumo, e allo stesso tempo l’ingenuità insieme al gioco, affiora un’idea dei vent’anni. Un’età afferente ancora all’infantile, ma al tempo stesso dotata di un’infinità energetica, fortemente rigenerante di sé e del contesto.
Da non perdere è poi l’esposizione del progetto Slowly and Then All at Once, con cui il fotografo britannico Andy Sewell esplora varie forme di potere e di protesta. Un intervento che denuncia la rottura di un sistema, dei suoi riti e delle sue pratiche. Una messa in mostra della crisi della democrazia occidentale che al tempo stesso allontana – con un ritmo e una fisicità a tratti incessante – un facile sentimento di resa e peggio ancora di cinismo. Un lavoro coinvolgente, che coglie appieno una necessità e un’urgenza che riguarda da vicino le nuove generazioni e in particolare la cosiddetta Generazione Z.
Da segnalare – pur non dimenticando che nulla è trascurabile all’interno di Fotografia Europea quando si parla di artisti come Toma Gerzha, Kido Mafon, Thaddé Comar, Jessica Ingram, Vinca Petersen, Ghazal Golshiri, Marie Sumalla e Claudio Majorana –, il lavoro della franco dominicana Karla Hiraldo Voleau, Frammenti che recupera il senso della ricerca di Pier Paolo Pasolini con Comizi d’amore. Karla Hiraldo Voleau ripropone uno svelamento dei desideri e delle ragioni della Gen Z, anche se più che ispirazione, il riferimento a Pier Paolo Pasolini certifica il senso di una ricerca e di una ragione che volge il suo sguardo a una generazione troppe volte commentata e vista come sotto una lente e dentro a una scatola. Il lavoro di Karla Hiraldo Voleau ha la capacità invece di abbattere ogni barriera per porsi alla medesima altezza d’occhio di chi vive spesso una quotidianità ignorata, o peggio ancora fraintesa da chi ha superato ampiamente gli anni della giovinezza, ma ancora detiene con scaltro cinismo il potere d’imporre e di scegliere per conto d’altri.
Legato invece all’esito dell’open call il lavoro di Matylda Niżegorodcew, Octopus’s Diary, ospitato nella sede di Palazzo Da Mosto. Artista visuale polacca, nata nel 2001 e attualmente studentessa presso la Film School di Łódź, Niżegorodcew indaga il senso e la ragione dell’identità, le sue molteplici forme e le sue contemporanee frammentazioni. Il suo lavoro ha un origine autobiografica che si espande fino a includere una forma performativa necessaria ad accogliere gioco e leggerezza, inquietudine e ricerca ostinata di libertà nella sua forma più estrema e veritiera. Un’azione che parte da sé, dalle proprie domande e arriva a includere l’artista stessa negli scatti. Niżegorodcew si pone come una narratrice onnicomprensiva in cerca di risposte: «E se? E se non avessi abbandonato le mie passioni, i miei sogni, le mie ambizioni? Se avessi fatto scelte diverse, se avessi vissuto in un posto diverso o se fossi stata di un altro sesso?».
Queste le domande che ossessionano Matylda Niżegorodcew e non solo. Questioni che spesso si ritrovano infatti al centro di un bisogno di crescita e comprensione del presente da parte di un’intera generazione, pronta a usare il proprio stesso corpo – oltre ogni forma di narcisismo – sia come campo di guerra, sia come campo di gioco, pur di mettere alla prova se stessi e il mondo.
«Ho agito come se fossi aria», scrive Matylda Niżegorodcew, e sarà nella densità dell’aria e nella qualità del suo ossigeno che prenderà corpo il futuro di una generazione capace di mettere in discussione il sé per dare spazio a un noi comprensivo e inclusivo. Anche di un mondo fino a oggi ritenuto mero strumento di conquista e di potere.
Fotografia Europea 2025 ha tutte le premesse per confermarsi come un momento essenziale di riflessione e di scoperta. Un luogo aperto in cui la fotografia torna a essere parte di un’elaborazione vitale, e non il segno ultimo di una monumentalizzazione culturale che troppe volte ha spazio in mostre dalla qualità esecrabile e prive di ogni reale coinvolgimento del pubblico.
All’interno di Fotografia Europea si è, più che spettatori, lettori di un tempo, di una contemporaneità i cui margini si sfilacciano giorno dopo giorno riportando in luce una trama ancora sì possibile da ricucire, ma facilissima allo strappo. Un rischio necessario e obbligato – tanto più in situazioni ed eventi così strutturati e istituzionalizzati –, se si vuole cogliere il tempo, salvarlo, e dare corpo a una speranza fatta tanto di analisi e approfondimenti quanto avvinta a un sentimento inclusivo e vibrante. Ben vengano i vent’anni e ancor più i ventenni con la loro forza dolce: si aprano le finestre e si spazzi con una carezza ogni forma di nostalgia e di cinismo.