Appuntamento nel nuovo head quarter di Emergency a Milano. Arrivo, è seduto su una panchina, dalla piega dei pantaloni si intravede una protesi: lui è Giles Duley, leggendario fotoreporter, oggi anche membro del consiglio direttivo di Emergency UK.
Il suo sogno di ragazzo era diventare musicista (ma a detta sua non riuscì mai a diventare così bravo); aveva diciott’anni quando lungo il suo percorso scoprì un nuovo strumento per far parte del mondo della musica: la macchina fotografica.
I suoi scatti cominciarono a sintonizzarsi con le note altrui e i Black Rose per primi lo coinvolsero nel loro tour in America, invitandolo a essere il loro fotografo ufficiale per quell’occasione. Una notte, sul pullman verso Detroit, Steve Bardsley (voce e chitarra della band) sorseggiava una bottiglia di Jack Daniel’s quando gli chiese se gradisse un sorso. Duley annuì, ma Steve non gli diede la sua bottiglia, gliene offrì direttamente una nuova. Era il mondo del rock and roll, bellezza. Lo stesso in cui sarebbe stato fino ai 29 anni.
Nel frattempo aveva fotografato la scena Brit: Oasis, Prodigy,Charlatans, Underworld, Pulp – e star come Mariah Carey e Lenny Kravitz.
Nel 2000, anno in cui Q Magazine nominava il suo scatto a Marilyn Manson come il miglior ritratto rock di tutti i tempi, Duley era su un set di moda quando un’illuminazione gli diede coraggio, improvvisamente si rese conto di non essere nel posto giusto. Erano anni che covava il desiderio di fare il fotoreporter, di raccontare dal vivo quello che succedeva nel mondo. Il set era allestito in una camera d’albergo; lui lanciò la sua macchina fotografica fuori dalla finestra (o meglio, la macchina cadde sul letto, rimbalzò e finì in strada).
Quel giorno cambiò la sua vita per sempre, inseguendo il suo sogno.
Dal 2000 ad oggi ha lavorato con diverse organizzazioni non governative documentando storie di vittime di guerra da tutto il mondo. Nel 2011, mentre era in Afghanistan, Duley perse entrambe le gambe e il braccio sinistro a seguito dell’esplosione di una mina. I medici gli dissero che non avrebbe mai potuto tornare a lavorare. Dopo 18 mesi era di nuovo in Afghanistan, con una troupe per girare il documentario ‘Walking Wounded: Return to the Frontline’ in cui visita il Centro chirurgico di Kabul e incontra i pazienti ricoverati.
Nel febbraio 2017 Giles Duley ha visitato i progetti di Emergency in Iraq con l’obiettivo di mostrare al mondo cosa è successo a Mosul e ai suoi cittadini. Questo lavoro, ‘Iraq: una ferita aperta’, è esposto dal 28 ottobre al 6 novembre e dal 14 al 23 novembre alla Casa Emergency e in Triennale fino al 12 novembre.
Com’è cominciato il tuo rapporto con Emergency?
Nel 2010 ho visitato il Sudan, avevo molto sentito parlare di Emergency ed ero curioso di saperne di più, io non lavoro con i giornali ma solo con ong. Lì ho incontrato Gino Strada (fondatore di Emergency) e siamo diventati amici, lui mi ha detto che sarei dovuto andare a vedere il lavoro che stavano facendo in Afghanistan. Quasi un anno dopo mi stavo organizzando per andarci ma due settimane prima, sempre in Afghanistan, ho avuto un’incidente e ho perso entrambe le gambe e un braccio. I medici mi dicevano che non avrei più potuto lavorare ma io avevo una missione in mente, pensavo che se avessi trovato un modo, il primo posto dove sarei andato sarebbe stato l’ospedale di Emergency in Afghanistan. E così 18 mesi dopo aver perso gli arti fu la prima cosa che feci. Da quel momento per me Emergency è diventata come una famiglia.
Come ti senti quando fotografi le vittime della guerra?
È una merda, fotografare bambini appena feriti o che hanno perso degli arti, è una merda. Poterli fotografare però è la cosa più importante che posso fare per loro, ma, prendere in mano la macchina fotografica quando hai davanti qualcuno che ha appena perso una gamba o un bambino che sta morendo è inumano. È stato sempre difficile. Oggi, che anch’io ho perso tre arti, si crea una sorta di solidarietà tra me e queste persone ma rimane comunque una merda. Questo progetto per esempio -‘Iraq: una ferita aperta è stato molto difficile, per la prima settimana che ero lì non sono riuscito a prendere in mano la macchina fotografica. Stavo male. Finché la mamma di un bambino che era lì e aveva appena perso una gamba mi ha detto: «Quando un bambino è ferito in questo modo, tutto il mondo dovrebbe vederlo».
Hai avuto una vita molto particolare e molto densa, e nonostante tutto hai sempre tirato fuori una grinta formidabile. Come ci riesci, qual è il tuo motore?
Sono sempre stato estremo nelle scelte della mia vita. Quando decido che è il momento di cambiare, cambio. Ma nel lavoro quello che più mi ispira sono le persone, è per la curiosità verso le relazioni che faccio questo lavoro. Io mi definisco un ritrattista, sono attratto dai volti, dalle vite degli altri e dagli scambi d’affetto, due mani incrociate, un abbraccio. Non è fotografia di guerra la mia, io fotografo l’amore in condizioni di guerra.
Quando gli chiedo com’è oggi il suo rapporto con la musica Duley dice, «È la mia vita». Negli anni è riuscito a veicolare il suo messaggio anche grazie alla musica. Ha partecipato al tour dei Massive Attack del 2016 con alcuni dei suoi scatti che ritraevano bambini rifugiati, «In qualità di fotografo, scattare foto è solo parte del mio lavoro, l’altra parte è riuscire a far si che le persone vedano le foto». Recentemente ha anche collaborato con Pj Harvey nella realizzazione del video The Camp, uscito a giugno 2017, dedicato alla crisi dei bambini rifugiati del Libano. Il video è composto da scene della cantante in studio e foto di Duley scattate tra il Libano e l’Europa.
È vero che scatti solo in pellicola?
Vero! È il mio linguaggio, lo amo, perché dovrei modificare qualcosa che amo? Pensa che scatto da 25 anni con la stessa macchina fotografica, ormai mi danno del “retrò”.
Frequenti ancora la camera oscura o mandi tutto in laboratorio?
Ho un laboratorio su Londra a cui mando la gran parte del lavoro ma non potrei mai fare a meno della camera oscura. Per me è come la bottega di un artigiano, è il luogo dove sviluppi le tue fotografie e nonostante siano tanti anni che la frequento ancora oggi mi emoziono tutte le volte che vedo uscire fuori le immagini sulla carta, mi sembra sempre una magia. Inoltre la camera oscura è come un nascondiglio per me, in quella che ho adesso ho un piccolo bar, un tavolo e una sedia e quando sono lì dentro con la scusa che sto lavorando non mi disturba nessuno.