‘ICARUS’, Milano, una «mentalità critica»: finalmente, di nuovo insieme a Yukinori Yanagi | Rolling Stone Italia
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‘ICARUS’, Milano, una «mentalità critica»: finalmente, di nuovo insieme a Yukinori Yanagi

Era dagli anni Novanta che l'artista giapponese non teneva una personale in Europa. Oggi, un'antologica inaugura a Pirelli Hangar Bicocca. Per farci riflettere sulla politica, sulla società, e sul significato della vita collettiva

Yukinori Nakagi

'Hinomaru Illumination' di Yukinori Nakagi, 2010

Foto: Road Izumiyama

Pur essendo uno dei più grandi artisti giapponesi viventi, ha scelto di abitare sull’isola di Momoshima, al centro del Mare Interno di Seto, lontano dai riflettori, dalla scena pubblica, da tutti. Già questo rende Yukinori Yanagi un tipo davvero speciale. Per lui, nato a Fukuoka nel ’59, l’arte è uno strumento per indagare e destabilizzare i concetti di identità e sovranità invitando gli spettatori a riconsiderare la realtà in cui vivono in un mondo sempre più globalizzato.

Concetti quanto mai attuali, e che, dal 27 marzo al 27 luglio, arrivano sotto forma di installazioni e megasculture al Pirelli Hangar Bicocca di Milano. L’occasione è ICARUS, la sua prima grande mostra antologica in Europa dopo decenni. Quasi la summa del Yanagi-pensiero, tutto focalizzato a mettere in discussione le narrazioni ufficiali e stimolare una riflessione sul modo in cui la globalizzazione e il continuo mutare delle società ridisegnano i confini e le appartenenze. «L’arte non è davvero compatibile con l’attività economica», ha raccontato tempo fa l’artista, «ma è l’unica attività che ancor oggi permette una mentalità critica».

Yukinori Yanagi

Yukinori Yanagi. Foto: Hideyu Fukuda

L’esibizione allestita lungo le Navate e nel Cubo dello spazio ex industriale accoglie lavori che vanno dagli anni Novannta ai giorni nostri. Al centro della sua poetica c’è spesso il concetto di identità nazionale, che non è mai fisso ma muta con lo scorrere del tempo. A raccontare tutto questo meglio di altri lavorri è la serie Ant Farm, presentata alla Biennale di Venezia nel 1993 e presto esposta proprio all’Hangar.

Duecento bandiere nazionali (che rappresentano i 193 stati rappresentati dalle Nazioni Unite e i restanti 7 non riconosciuti membri come Taiwan, Tibet e Palestina) sono realizzate in sabbia colorata e vengono gradualmente erose da colonie di formiche. In questo modo Yanagi esplora la fragilità e la transitorietà dei simboli che definiscono una nazione.

Yukinori Yanagi

‘Banzai Corner’ di Yukinori Yanagi, 1991. Foto: Road Izumiyama

Era da trent’anni che questa silenziosissima star dell’arte non esponeva in Italia. La mostra milanese, curata da Vicente Todolí con Fiammetta Griccioli, recupera il tempo perduto prendendo spunto dalla mitologia greca. Il titolo della retrospettiva infatti rievoca la leggenda di Icaro e Dedalo, che di fatto è un invito a riflettere sull’arroganza umana nata dall’eccessiva fiducia riposta nella tecnologia. Avvicinandosi troppo al sole (qui inteso come metafora dell’energia nucleare), Icaro diventa responsabile della sua caduta. «Quel mito», ha spiegato, «rappresenta una forte critica al modernismo, all’arroganza degli esseri umani e alla sopravvalutazione delle capacità tecnologiche».

Proprio al nucleare si ispira l’opera che di fatto apre l’esposizione: Project Godzilla 2025 – The Revenant from “El Mare Pacificum” (2025) mette in scena un accumulo di detriti e oggetti di scarto, come pezzi di acciaio, di legno, componenti di macchine e sacchi di sabbia, al cui centro è proiettato il grande occhio di Godzilla, mostro generato dall’energia nucleare. L’artista si ispira alla gigantesca creatura, personificazione della violenza e dell’odio per l’umanità, per puntare l’attenzione sull’impatto ambientale provocato dall’uso delle armi nucleari creando così uno scenario post-apocalittico, che evoca un senso di distruzione di massa e sottolinea la fragilità di uomo e natura.

Yukinori Yanagi

‘Article 9’ di Yukinori Yanagi. Foto: Road Izumiyama

L’installazione in questione è poi messa in dialogo con Article 9 (1994), dove il pubblico può interagire mettendo insieme parole giapponesi che, riposte nell’ordine corretto, recitano il testo dell’Articolo 9 della Costituzione nipponica dove viene fatta rinuncia per sempre alla guerra e all’uso della forza per risolvere le controversie con altre nazioni. Tutto il progetto espositivo allestito alla Bicocca gioca sulla dualità, sul dialogo fra passato e presente, distruzione e rinascita, realtà e fantasia, materia e simbolismo, movimento e permanenza.

Studi alla Yale University School of Arts, dove è stato allievo di Vito Acconci e Frank Gehry, Yanagi affronta spesso il passato del Giappone e il peso della sua storia imperiale. Lo fa cercando di riconfigurare i simboli di ieri per dialogare con il presente e aprire spazi per nuove interpretazioni. Ne è altro esempio l’opera Absolute Dud del 2007, dove il riferimento alla bomba atomica su Hiroshima è immediato. Yanagi ricrea una replica in ferro dell’ordigno, che però non ha più un potenziale distruttivo ma diventa memoria fisica delle conseguenze della guerra e dell’abuso di potere in nome del progresso. Progresso da cui è fuggito all’inizio degli anni Duemila.

Yukinori Yanagi

‘EC Flag Ant Farm’ di Yukinori Yanagi, 1992. Foto: Yanagi Studio

L’artista infatti non ha sempre vissuto sull’isola di Momoshima. Per anni ha lavorato a San Francisco. «All’inizio degli anni Duemila sono tornato in patria», ha ricordato. «Sentivo che c’era qualcosa di insidioso nell’economia americana che si stava espandendo rapidamente mentre il divario tra ricchi e poveri aumentava, così ho chiuso il mio studio e me ne sono andato via dagli Stati Uniti». Oggi dirige l’Art Base Momoshima, centro d’arte privato che ha fondato nel 2012 ristrutturando ogni centimetro quadrato di una vecchia scuola e di un cinema degli anni Cinquanta abbandonati. «Qui anche i bagni sono usati come spazio espositivo», ha spiegato l’artista, che quest’anno realizzerà sull’isola di Anjwa, in Corea, lo Anjwa-Do Project, che prevede l’apertura di un museo fluttuante dedicato alla sua opera.

«Ho scelto Momoshima e non Tokyo perché voglio continuare a essere libero. L’arte deve essere sempre l’obiettivo, mai un mezzo. Se un artista perde il suo scopo, tutto è inutile. Gli sponsor e i mecenati sono ovviamente necessari, ma di fatto condizionano il modo di fare cultura. E io non ho mai amato i condizionamenti».