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Il gineceo radicale di Cinzia Ruggeri, ripensare la casa come caverna del pensiero

La mostra personale della stilista, artista e designer milanese, ospitata da Casa Masaccio, ci fa riflettere sul concetto di casa: è il ritratto di chi la abita? E cosa comporta vivere dentro il proprio ritratto?

Foto: Alessandro Zambianchi

Attraversiamo la brughiera fino alla casa di Keats per mirare l’anello con cui il poeta si propose a Fanny Brawne, varchiamo la soglia di casa Freud per toccare fugacemente il Qashqa’i su cui si sdraiò l’Uomo dei Lupi. Visitiamo i tetri appartamenti di Victor Hugo sostando dinanzi all’abito in cui annegò la figlia Léopoldine, sediamo nel salotto di Delacroix inondati dal fascio di luce di cui egli stesso si compiace nelle pagine del suo Journal. In Lungotevere della Vittoria consideriamo quali tasti della macchina da scrivere di Alberto Moravia presentano maggiore usura, mentre a casa di Giacinto Scelsi già pensiamo di cercare su eBay le stesse apparecchiature acustiche. Ci rechiamo nelle case dei nostri idoli per trovare ripercussioni materiali del loro pensiero.

La casa altrui è pronta allo sguardo estraneo già agli inizi del XIX secolo, si ricordi la scena di Orgoglio e Pregiudizio in cui Elizabeth viaggia con gli zii nel Derbyshire e finisce in visita a Pemberly, la dimora di Mister Darcy. La ragazza lamenta di non poter più visitare altri palazzi per vedere sempre i soliti “vetusti tappeti e tende satinate”, ma la zia la rincuora dicendo che dalla magione s’avvistano i migliori boschi della contea. Inutile sottolineare che la casa di Darcy sferra il colpo di grazia al cuore di Elizabeth perché in essa ritrova un’estetica che non sapeva di cercare; la bellezza della casa riecheggia lo spirito del suo padrone.

La casa è il ritratto di chi la abita? E cosa comporta vivere dentro il proprio ritratto? È possibile un autoritratto veritiero? Quando un artista, uno scrittore o una persona coinvolta nella creazione deve plasmare il proprio ambiente domestico, è più giusto che costui parli di sé in ogni oggetto, infisso, pavimento o è auspicabile neutralizzare la propria autorialità? Una casa che è eccessivamente il ritratto di un’anima, non è forse una giostra degli specchi? Si potrebbe affermare che la casa è sempre una proiezione dell’individuo, del suo desiderio o del suo sintomo.

La casa-ritratto è sedimentazione della storia dell’individuo che l’abita, la casa “arredata” è riproduzione cosciente dell’idea che un individuo intende dare di sé, la casa inventata sottende la dimensione del gioco e s’accosta al rapporto che l’artista intrattiene con il proprio studio sebbene l’opera diventi l’abitare stesso. Ogni volta che si cambia casa, siamo chiamati a scegliere uno di questi modelli o altri ancora (necessità, transitorietà, funzionalità, ospitalità), a postulare una filosofia dell’ambiente domestico che per alcuni diventa drammatica, ossessiva, perennemente irrisolta, per altri cangiante, motivo di piacere e divertimento. In questi mesi una mostra getta una luce irriverente e filtrata dal rosa più delicato sull’idea d’intimità dell’ambiente: “Cinzia Ruggeri… per non restare immobili” al centro per l’arte contemporanea Casa Masaccio (12 settembre – 08 novembre 2020).

In una bellissima conversazione tra Mariuccia Casadio, Marco Tagliafierro e Cinzia Ruggeri avvenuta nel 2018 e pubblicata su Flash Art, quest’ultima racconta:

«Alla fine degli anni Sessanta, di ritorno da Parigi, incontro un uomo di cui mi innamoro; insieme decidiamo di affittare una casa vuota; l’accordo era di non portarci dietro nulla che appartenesse alle nostre vite precedenti. Volevamo ripartire da zero. C’era un letto, un materasso, ma il resto, tutto quello che avrebbe fatto parte dell’arredo, doveva essere reinventato. Abbiamo deciso che la casa doveva essere bianca, come pavimento una moquette color farina. Nel grande salone, un tavolo da ping pong. […] In seguito arrediamo la casa con mobili trasparenti, in perspex, disegnati da noi. Niente arte alle pareti, perché non puoi possedere ciò che ami… Abbiamo concepito così un nostro modo di abitare».

Come la psicoanalisi è arrivata a formulare il concetto che non si dovrebbe mai dare al nascituro il nome di un figlio mancato o di un’altra persona amata e perduta, così Cinzia Ruggeri e il suo innamorato postulano la loro filosofia dell’abitare come una tabula rasa predisposta alla storia d’amore. La stessa tabula rasa dei significati che è il motore della creazione artistica di Ruggeri per cui, in barba all’object-oriented ontology, ogni oggetto diviene autoritratto di uno stato d’animo o carapace, talvolta trasparente, di un corpo che pulsa.

L’opera di Cinzia Ruggeri (Milano, 1942-2019) per gioia, grazia e immediatezza è assimilabile a una raccolta di antichi versi giambici greci, frammenti perfettamente risolti di mare aperto, sfide vinte, peschi e appellativi melodiosi, ambientati però in un cosmo mondano e futuribile attraversato da un’umanità volta al femminile. Pur mostrando vicinanze con la scena del Design Radicale e collaborando con Studio Alchimia, Cinzia Ruggeri rimane una stilista, artista e designer dall’estetica unica e indipendente sin dal proprio esordio, avvenuto a 17 anni con una mostra personale accompagnata da un testo di Dino Buzzati. Fonda il proprio marchio nel 1977 e nel corso degli anni Ottanta apre nuove linee che presenta con vere e proprie performance al posto delle tradizionali sfilate. Sono questi gli anni di abiti iconici che spesso integrano alla fibra tessile elementi elettrici, meccanici o protesi funzionali: Abito luce (1981), Abito con tessuto a cristalli liquidi (1982), Abito tovaglia (1984), Abito con polipo (1984), Abito salame (1989). Dagli anni Novanta Ruggeri comincia a cercare maggior solitudine, fino al 2019 continua la produzione di oggetti d’arte, tra cui le meravigliose opere mosaicali e i gioielli per lampadine.

Foto: OKNOstudio

Casa Masaccio a San Giovanni Valdarno, un centro per l’arte che sorge intorno al concetto di casa, ricostruisce nella propria architettura domestica e con la poetica curatela di Rita Selvaggio, un percorso di opere di Cinzia Ruggeri che si presentano al visitatore come se questi stesse percorrendo l’appartamento dell’artista: le vesti appese con frivolezza in tutte le stanze fuorché nel guardaroba, gli oggetti della cosmesi incastonati nei mobili, abbandonati negli anfratti, a metà tra un garden grotto e il castello di Amore cantato da Apuleio. La Sedia da doccia concepita intorno al 1980 è decorata con spugne, gemme e perline e così il Gembriule con spugne. Decori floreali e perle adornano anche la trama trasparente de Il bello delle bandiere è il vento (2018). Cats Vanity Fair (1999, prodotto da Poltrona Frau) è una poltrona adorna di spie luminose a forma di occhio felino, mentre altre opere sono fondate sull’elemento specchiante come Specchio Pizzo (1988). Tutto in Cinzia Ruggeri – il mosaico, la fibra tessile, lo specchio o la più piccola perla decorativa – presta attenzione agli aspetti luminofori dell’ambiente, a rilucenza e luccicanza, che storicamente denotano un grandissimo tema coltivato dal platonismo, quello della caverna, spesso adorna di pietre, nonché del palazzo abitato dal dio e dal destino, il palazzo di Psiche.

Dall’antichità provengono mirabili ritratti di case che, quando sono abitate da un’entità divina, presentano sempre un elemento in comune: la rilucenza. Quando Psiche entra come ignara sposa nella dimora di Amore, racconta Apuleio, dinanzi ai suoi occhi si stagliano soffitti intagliati in cedro e avorio, colonne d’oro, pareti d’argento cesellato, pavimenti in mosaico, ma soprattutto muri d’oro massiccio che spandono riflessi fiammeggianti “ut diem suum sibi domus faciat licet sole nolente”, tali che il palazzo risplende di per se stesso anche se manca il sole. Persino camere, logge e bagni brillano. L’importanza misterica della rilucenza non si perde nella grecità, ma trova una via per arrivare all’età moderna. Ispirandosi alle grotte dei giardini rinascimentali italiani e francesi, i nobili inglesi di XVIII secolo riproposero la tradizione della grotta rilucente in vesti misteriche e sfarzose, spesso installando eremiti in carne e ossa nei propri antri. Il poeta e giardiniere Alexander Pope (1688–1744) ne costruì una nella propria dimora di Twickenham. La caverna di Pope disponeva di un ruscello, simbolo del movimento e del suono. Nella grotta di un poeta tutto doveva risplendere ed essere decorato da materia riflettente: selci, metalli provenienti da ogni angolo del mondo, lastre di vetro che veicolassero fenomeni luminosi di riflessione e rifrazione della luce a contatto con l’elemento acquatico, ma anche conchiglie e spugne. Pope vi si recava ogni giorno, entrando al contempo in ben altre caverne care alla filosofia, per venire trafitto dal movimento sincronico di suoni e luci. Nell’Odissea è rivestito di pietre luminose il palazzo di Circe, mentre la grotta di Calipso è attraversata dall’eco di quattro fontane. Erano loro a ispirare Pope che dal canto proprio auspicava che tutto nel suo magico grotto fosse “glittering”, sbrilluccicante, al fine di imitare i fenomeni della natura in movimento. Il brillìo è ricreazione artificiale del movimento, e dunque della natura e della vita.

Pertanto la casa può essere anche una caverna del pensiero che brilla di luce propria. Casa Masaccio, percorsa delle opere di Cinzia Ruggeri, si trasforma in un gineceo, per secoli infiniti caverna della casa, sede della tessitura e dunque del pensiero, spesso posto al secondo piano per allontanarlo ulteriormente dall’esterno, come racconta Penelope nell’Odissea, sempre intenta a scendere o salire le scale che conducono alle “superne vedovili stanze”. Casa Masaccio, casa aperta a museo, si riempie di elementi sottratti a un gineceo radicale dove ogni specchio, tessuto o filtro luminoso, tendaggio adorno di perline, svolge la funzione della lacaniana scatola di sardine che fluttua lampeggiando nel mare aperto, una macchia di luce che squarcia lo sguardo del giovane che l’avvista provocando una sensazione perturbante: non sono io a guardare l’oggetto o l’ambiente, sono bensì guardato da esso. E dunque, per tutti i giovani che s’apprestano a definire il proprio ambiente, la casa forse non deve essere un ritratto, né una rappresentazione dell’ideale, né un’invenzione, ma una caverna o, se si vuole rimanere nei termini della psicoanalisi, un ombelico del sogno: “Ogni sogno ha perlomeno un punto in cui esso è insondabile, quasi un ombelico attraverso il quale esso è congiunto con l’ignoto”.

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