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James Ensor ci aveva già (s)mascherati

Tra maschere grottesche e il totem dell’eterna giovinezza. Anversa celebra l’artista belga con l’iniziativa Ensor 2024: quattro mostre simultanee che ci mettono allo specchio

Perché indossiamo delle maschere? Come ci rapportiamo a ideali di bellezza in continua evoluzione e impossibili da raggiungere? In un’epoca in cui è più comodo (e decisamente più appagante) guardarci attraverso la fotocamera interna dell’iPhone con filtro applicato piuttosto che allo specchio, in cui una fiala di filler è più diffusa che una piega dal parrucchiere e la psycho-cura della pelle è diventata addirittura più appealing delle miracolose tecniche di contouring che tanto decantavamo, forse la finzione estetica si è incontrovertibilmente sovrapposta alla realtà. Siamo le machere di noi stessi? E se così fosse, che ci sarebbe di male?

Per il pittore belga James Ensor (Ostenda, 1860 – 1949) assolutamente nulla. O meglio, secondo lui tutto ciò che l’uomo nasconde, la maschera rivela. È uno specchio autentico, seppur brutale, della decadenza che vede intorno a lui, dell’opportunismo e della malizia di coloro che critica con divertita rassegnazione condita di umorismo zwanze. Come nell’antica commedia latina la parola “maschera” è legata all’etimologia della parola “persona”, i volti dai tratti somatici dissimulati dei suoi dipinti non indossano, ma sono, maschere. Vien da sé che il concetto di “apparenza”, in genere messo al rogo, di cui si fanno portavoce, porta paradossalmente alla luce la pluralità possibile smantellando l’illusione dell’identità unica. E su questo i pennelli del quasi coetaneo di Pirandello paiono invecchiati benissimo. A darcene una prova è stata la città di Anversa, isola felice con i suoi elisir distillati, le sue cioccolaterie gourmet e i suoi books&records ad ogni angolo, dove siamo andati a scoprire le quattro mostre internazionali allestite in commemorazione del 75° anniversario della morte di Ensor. Esposizioni che non solo portano a galla tutte le sfaccettature della sua arte ma approcciandola da punti di vista inediti ne proseguono il discorso nella contemporaneità.

Centro dell’ambizioso tour è il KMSKA, il Museo Reale di Belle Arti di Anversa, dove troviamo In Your Wildest Dreams: Ensor Beyond Impressionism, la più grande retrospettiva finora a lui dedicata sotto la curatela di Herwig Todts. Si percorrono le sue orme sul nastro temporale, dove l’iniziale liaison tematica con la tradizione pittorica realista di Gustave Courbet, Rembrandt e Jean-François Raffaëlli, abbraccia stilisticamente le pennellate impressioniste à la Monet militando nell’avanguardia “Les XX”. Eppure, Ensor non celebra la bellezza del mondo come i suoi colleghi francesi, piuttosto ne esalta i contrasti più radicali. Sperimentale, dissacrante, provocatorio, si spinge oltre, avvicinandosi al misticismo di Edvard Munch e Odilon Redon, ed elaborando un’iconografia tanto grottesca quanto esilarante. Una teatrale riproduzione del Cabaret de l’Enfer – che “Ensor avrebbe adorato”, dichiara Todts – apre il sipario sulla mise-en-scène del macabro, del socialismo anticlericale e delle culture popolari tra scheletri danzanti (très cool all’epoca), deliranti parate e maschere carnevalesche. Nonostante Ensor fosse un lupo solitario, asociale, misantropo, qui emerge tutto il suo lato più satirico e divertente, come ad esempio nel quasi caricaturale olio su tela Au conservatoire (1893, circa).

Talmente ossessionato dalla morte, al culmine della sua carriera Ensor trasferisce il suo linguaggio artistico anche nel campo dell’incisione: “Temo la fragilità della pittura. Voglio sopravvivere e penso a lastre di rame solido, a inchiostri inalterabili”. Una parentesi che trova un’eco tutta nuova negli spazi del museo tipografico Plantin-Moretus, unico al mondo ad essere iscritto nella lista del patrimonio mondiale UNESCO, con la mostra Ensor’s States of Imagination. Troviamo disegni preparatori, stampe in diversi stadi di lavorazione, sperimentazioni su rame, zinco, pergamene, tessuti, che ricalcano la sua (la nostra) transitorietà panica dallo spirito anarchico, come nelle riproduzioni Death Chasing the Flock of Mortals (1896) e Doctrinal Nourishment (1889).

Ora, per prendere parte a questo speciale anniversario il FOMU – Museo Fotografico di Anversa si focalizza invece su una figlia adottiva del maestro fiammingo, un’artista contemporanea che ha trascorso quasi mezzo secolo a lavorare con maschere, protesi, trucco e parrucco: Cindy Sherman (Glen Ridge, 1954). Senza mai menzionare Ensor, se non nel suo catalogo, la mostra si apre con la sezione Early Works 1975 – 1980 dove troviamo i primi minuziosi autoritratti, i «cut-outs» del film Doll Clothes come trasposizione dell’ambiguità del vestire in quanto espressione di sé e al contempo cappio di genere e status sociale, e l’emblematica serie dalle atmosfere hitchockiane Untitled Film Stills. Attraverso gli scatti del capitolo Anti-Fashion il parallelismo con Ensor si fa poi lampante, approcciando la fotografia di moda con un’ironia critica quasi inquietante. Talvolta Sherman assume le sembianze di un clow, talvolta di una clubber esagitata, talvolta di una sposa sedotta e abbandonata. Quale sia il suo reale aspetto non si sa: mascherandosi smachera il concetto di identità come qualcosa di incasellabile, come una costruzione, quindi mutevole, quindi disorientante.

30 x 20 inches

Per chiudere (o riaprire, dipende) il cerchio, con l’esposizione multidisciplinare Masquerade, make-up & Ensor il MoMu – Museo della Moda di Anversa, in collaborazione con la rivista e piattaforma creativa BEAUTY PAPERS, ci riporta al nostro incipit. Protagonista è sempre la maschera intesa come trucco. Che «inventa» e «inganna». In dialogo con alcuni dipinti di Ensor c’è il lavoro della make-up artist Pat McGrath al fianco di John Galliano con l’iconica glass-skin della couture 2024 di Maison Margiela, le creazioni capillifere di Julien d’Ys per Comme des Garçons, il bouquet di maschere BDSM di Walter Van Beirendonck, le suggestioni di Thomas de Kluyver, come i viralissimi fiocchetti per Simone Rocha e le lacrime siliconate per Gucci. Spicca sicuramente lo spazio dedicato alla più influente MUA belga Inge Grognard, amica intima e collaboratrice dei cosiddetti “Antwerp Six” e di Martin Margiela. Dove i suoi primi lavori per quest’ultimo vengono sorprendentemente mostrati valorizzando gli specifici prodotti utilizzati: rossetti, tinte-carbone, pennelli, esposti in sacchetti di plastica trasparente.

“Mi piace l’ambivalenza tra la celebrazione dei make-up artists e allo stesso tempo come il loro lavoro sfidi l’ideale di bellezza” ci dice la direttrice del museo e co-curatrice della mostra Kaat Debo. È anche il caso dei glossy acne patch a forma di stelle e cuori, esposti in una teca di vetro come cimeli del nostro tempo: cicatrici nascoste e al contempo accentuate in modo buffo, ironico, ambivalente. Il discorso poi prosegue con gli acrilici esagerati di Genieve Figgis, i collage corporei di Tschabalala Self, gli autoritratti di Harley Weir e i primi piani cosparsi di argilla di Issy Wood, parafrasando temi come la sessualizzazione delle donne e la commercializzazione della bianchezza. “Si guarda non solo all’importanza storica di Ensor, ma all’impatto delle sue idee, come sono riflesse e ragionate dagli artisti e dai designer oggi. Ciò dice molto su quanto un artista morto anni fa sia ancora rilevante o meno” aggiunge Debo. Sul finire del percorso espositivo l’attenzione viene rivolta alle tecnologie scientifiche anti-age per il ringiovanimento della pelle. Quella pelle che il filosofo Jean-Luc Nancy afferisce a nostro primo legame con il mondo, con l’Altro. Per la quale non esiste una nudità (e una vulnerabilità) solitaria. Emblematico è il video realizzato dal fotografo Éamonn Freel e dal truccatore Lynski nell’esplorare i rapidi cambiamenti delle tendenze beauty accelerati dall’intelligenza artificiale. Continua Debo: “Da un lato mette in luce la creatività infinita dell’AI e quanto possa essere divertente, dall’altro le conseguenze più preoccupanti di questa distorsione. Qual è la linea sottile? Come museo non vogliamo condannare nulla, ma chiederci: quanto potrà [ulteriormente] incasinare la nostra mente?”.

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