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La lingua perduta degli storyboard

All’Osservatorio della Fondazione Prada di Milano è arrivata ‘A Kind of Language’, mostra che ripercorre la storia di un’arte bistrattata ma fondamentale per la realizzazione dei film. Tra gli scarabocchi di Bergman e i “fumetti” di Scorsese, è un viaggio bellissimo e utilissimo per capire (non solo) il cinema

Foto: Piercarlo Quecchia/DSL Studio per Fondazione Prada

È stato David Byrne, «che fa storyboard per qualsiasi cosa» – anche per il film Stop Making Sense, tra le opere esposte qui in mostra nei suoi schizzi preparatori –, a suggerire il titolo A Kind of Language (sottotitolo Storyboards and Other Renderings for Cinema), dice la curatrice della mostra Melissa Harris. Perché in effetti «è una sorta di linguaggio», ed è un linguaggio spesso segreto, occultato perché lo si è sempre creduto più pratico e funzionale che, diciamo così, artistico. Finora. Perché invece questa mostra ci dice che eccome se lo è, «anche se il processo qui è inverso: non si comincia dalla fine, cioè dall’opera conclusa, il film, ma dall’inizio, da tutto quello che viene prima», dice Harris davanti alle vetrate dell’Osservatorio della Fondazione Prada che affacciano sui tetti di vetro della Galleria Vittorio Emanuele, in una giornata piena di sole.

Inaugurata ora, la mostra sta su fino a settembre ed è una Wunderkammer non solo per cinefili, due anni e più di ricerca per avere completezza e soprattutto contezza più che del risultato di un processo, che è quello del fare cinema. E più ancora per raccontare «la collaborazione, il lavoro umano» dietro questi che a volte sono storyboard tout-court, altre semplici bozzetti, segni, disegni, polaroid, appunti. «È materiale corrotto», continua Harris, e anche qui sta il fascino della questione, «fogli che sono stati fotografati, spediti per mail o fax, a volte anche calpestati sui pavimenti degli uffici dei registi e dei loro collaboratori». Per questo quelle che vediamo son quasi tutte copie, di cose però rarissime e preziose, perché «bisognava andare direttamente alla fonte e non era facile, spesso gli stessi autori ripescavano certe cose dai cassetti in cui erano finite, dimenticate anche da loro».

Tra i tanti registi esposti – Charlie Chaplin, Martin Scorsese, Bernardo Bertolucci, Terry Gilliam, Sofia Coppola, Wes Anderson, Hayao Miyazaki, Todd Haynes, mille altri – ce n’è anche uno vivente e famosissimo che ha nemmeno troppo gentilmente declinato l’invito: “Chi fa gli storyboard non capisce niente di cinema”. Non vi dirò mai chi è.

Lo storyboard della scena della doccia di ‘Psycho’. Foto: Piercarlo Quecchia/DSL Studio per Fondazione Prada

«Gli storyboard servono al regista a definire quello che sarà lo spazio del suo film», dice Harris, che è una descrizione molto pertinente e molto bella. Sono l’apparecchiatura della tavola, e ciascuno avrà la sua, chi un tovagliolino di carta e chi posate d’argento e centrotavola arcimboldeschi. Agli spagnoli – Pedro Almodóvar, Álex de la Iglesia – piace il fumetto dal tratto sfacciatamente pop. Altri partono delle foto: Agnès Varda per il suo reportage cubano, Wim Wenders con «le statue degli angeli a Berlino: si è accorto andando lì che ce n’erano tantissime, si è messo a fotografarle e poi hanno costituito la base del suo film». Per la scena più bella e famosa di Persona, quella in cui i volti di Liv Ullmann e Bibi Andersson finiscono per sovrapporsi, Ingmar Bergman aveva lasciato solo una specie di scarabocchio di bambino. Invece dalle tavole pittoriche della Disney – Biancaneve, Pinocchio, Fantasia – è in fondo partito tutto, cioè l’idea di storyboard come la si è intesa da lì in poi, e anche per questo sono opere d’arte a sé. Come quelle, quasi body horror, di Matthew Barney per Cremaster 1: Choreographie Suite, nella sezione dedicata alla danza. È una delle opere originali di un vero artista qui esposte, se non si vuole considerare vero artista della matita e dei colori pure il Fellini dei bozzetti di Amarcord.

Sui tavoli inclinati pensati dallo studio Sub, ideati per farci sentire tutti come dentro il vero studio di un regista/storyboarder e tutti vezzosamente diversi a seconda del tema (oro per Piccolo Buddha, rosa confetto per Il giardino delle vergini suicide) passa la scena della doccia di Psycho, e Scorsese che disegna da sé il combattimento di Toro scatenato come fosse un balletto, e i pochi tratti di penna con cui Pasolini ha immaginato la Nannarella di Mamma Roma, e l’irrealizzato – e per questo ancor più illustre – Dune di Jodorowsky.

Il mio preferito? Forse la casa di Rebecca – La prima moglie di Hitchcock, che pare un quadro gotico o lo studio per una una scenografia teatrale. Accanto è riportata una lettera con alcune note di scena che comincia con “Dear David…”, dove David sta per Selznick, e già quello è bellissimo, è quando era tutto grandissimo, il cinema e chi lo faceva. E di chissà quante altre lettere, e schizzi, e note perdute saranno pieni i cassetti dei cinematografari del mondo, noi aspettiamo solo che qualcun altro abbia ancora il guizzo e il genio di tirarli fuori.

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