«Photoshop non so usarlo. Sono rimasto l’ultimo, mi sa». Maglietta verde acido, calzoni corti, scarpe da running (il fisico è da cestista), Wolfgang Tillmans si muove con ampie falcate negli spazi luminosi della Fondation Beyeler di Basilea, in Svizzera (“la Tiffany delle fondazioni”: museo artsy-chic immerso in un parco tra salici e ninfee su progetto di Renzo Piano e programmazione culturale raffinata, ché il pubblico per apprezzarla qui non manca). Fino al 1° ottobre le 12 sale della fondazione sono punteggiate da 200 lavori dell’artista tedesco (nasce nel 1968 a Remscheid, oggi vive tra Berlino e Londra: alla Tate gli hanno appena dedicato una personale e nel 2000 si è aggiudicato il Turner Prize, che è il Grammy del mondo dell’arte).
Tillmans mette in mostra roba forte: ci trovi i “ragazzi di vita” che lo hanno accompagnato nelle scorribande notturne, gli amici di sempre (come Anders, un poetico Arcimboldo contemporaneo con il volto infarcito di sassi), i vestiti abbandonanti dopo i party (è la serie Faltenwurf: capi di vestiario ripresi a grandezza naturale), c’è persino un ragazzo che piscia su una sedia e una tipa, Ash B, con lo sguardo perso chissà dove.
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«Ho cambiato l’allestimento fino a un minuto prima dell’opening della mostra», confessa. E per opening, sappiamo noi, intende un dj-set: Tillmans è cresciuto ad acid-house, e spesso si cimenta con sue produzioni musicali, affascinato dalle infinite intersezioni tra suoni metropolitani e arte astratta. L’ultimo album è dello scorso anno: That’s Desire/ Here We Are EP.
Alla Beyeler sfilano ritratti, nature morte, paesaggi, opere astratte: tutti di diverso formato, talvolta stampati su carta semplice e appese con piccole puntine perché, dice Tillmans, davanti all’arte «Bisogna avere uno sguardo aperto e senza paura».
Conturbante, questo suo occhio che indaga fino all’ossessione il dettaglio del reale: «Dentro ogni immagine c’è qualcosa di nascosto che vedo solamente io, lo so», dice mentre osserviamo Blautopf, Baum, lavoro del 2001. Mi pare “solo” un albero davanti al fiume, e invece lui indica un sasso là in fondo e una sfumatura di verde che non avevo colto. «Non credere a tutto ciò che vedi», dice.
I Paper Drop, per esempio, paiono gocce e invece sono fogli di carta colorata ripiegati su se stessi. Ci sono poi fotografie realizzate senza obbiettivo meccanico (Tillmans adora i paradossi): la serie Silver è il risultato di fogli di carta passati dentro una stampante intenzionalmente mal pulita, così che gocce di sostanze chimiche producano forme inattese.
Tillmans ci porta così a godere di una fotografia astratta fatta di luce e chimica, simile a quella che lui scoprì da bambino entrando in una cartoleria e osservando gli ingrandimenti a 400% della fotocopiatrice, capace di mostrare la texture della carta invisibile a occhio nudo, con piccole macchie e ombre. Oggi come allora, tutto è enfatizzato: il ragazzo in pantaloni corti continua a giocare.