Ai più il suo nome dirà poco, eppure Ming Smith è un gigante della fotografia mondiale. Popolarissima fra gli addetti ai lavori che amano una fotografia densa di sfumature emotive, culturali e sociali. Chi non la conoscesse ancora ha l’opportunità di recuperare il tempo perduto andandosi a vedere la mostra Ming Smith – I Paint with Light allestita alla galleria M77 di Milano fino al 24 maggio. Si tratta della prima personale a lei dedicata in Europa. Un progetto antologico imponente che punta a celebrarne la carriera, oltre cinquant’anni vissuti intensamente, impastando tecniche fotografiche tradizionali e audaci sperimentazioni artistiche, il jazz, il blues e la danza con la pittura contemporanea.
Prima fotografa afroamericana ad entrare nella collezione permanente del MoMA – era il 1979 – Smith ha raccontato per immagini la complessa esperienza della sua comunità nelle città USA. Lo ha fatto non soltanto documentando, ma introducendo elementi emozionali e a tratti surrealisti. Nel suo immenso portfolio ci sono musicisti e ballerini, c’è la quotidianità delle strade di Harlem e dell’Hill District di Pittsburgh, come anche le questioni politiche, aperte ormai da secoli. «Dal giorno in cui è arrivata a New York, Ming Smith è al centro di uno straordinario fenomeno culturale in continua evoluzione, e contribuisce così alla crescita del Black Arts Movement», ha affermato tempo fa la curatrice del MoMA, Thelma Golden.

‘Dakar Roadside with Figures’, 1972. Foto: press
Nata a Detroit nel 1947, cresciuta a Columbus in Ohio in un ambiente culturalmente ricco (sua nonna insegnava al college), si converte alla fotografia grazie a una fotocamera regalatale dai genitori. «Mio padre si guadagnava da vivere come farmacista, ma era un artista», ricorda. «Un giorno ha comprato a mia madre una Brownie, che è rimasta appesa nell’armadio per molto tempo. Così, in occasione del mio primo giorno di scuola materna, le ho chiesto se potevo portarla con me. Quello stesso giorno ho scattato le mie prime foto che ho conservato per anni».
Mentre studia microbiologia alla Howard University a Washington, DC, Smith decide di iscriversi a un corso di fotografia. All’improvviso tutto cambia. Ming vola a New York e si stabilisce nel West Village. Bellissima, si paga da vivere facendo la modella e nel frattempo fotografa, soprattutto di notte. «Ero solo una ragazza a New York che cercava di trovare la sua strada», dice. Succede nel 1973, quando entra a far parte del Kamoinge Workshop, leggendario gruppo di fotografi newyorkesi. Lei è l’unica donna del team.

‘Child Porter (Africa Series)’, 1972. Foto: press
«Kamoinge è stata la mia introduzione alla fotografia come forma d’arte», spiega. Con il collettivo narra la vita della comunità nera e crea un corpus di opere che affrontano temi universali come l’identità, la memoria, la resilienza e la lotta per il riconoscimento. La mostra alla M77 ne raccoglie una parte cospicua. I lavori esposti sono oltre cento: dalle prime realizzazioni dei 70’s fino a quelli più recenti. Un racconto visivo che trae ispirazione da maestri come Gordon Parks, Diane Arbus, Brassaï, W. Eugene Smith, Robert Frank e Lisette Model, quest’ultima sua grande amica. Tra le istantanee più iconiche c’è la serie Invisible Man, tributo all’opera di Ralph Waldo Ellison, e i ritratti di Grace Jones e August Wilson, che riflettono la complessità delle storie black.
Il percorso espositivo milanese si sviluppa su più aree tematiche. Si parte con una riflessione sulla vita afroamericana, si prosegue con una serie di splendidi ritratti e si conclude con una sezione tutta dedicata alla sperimentazione pittorica. È in quest’ultimo caso che l’artista americana gioca con la materia stessa della fotografia, applicando la pittura sulla pellicola e creando opere che sembrano scaturire direttamente dal ritmo della musica. Smith racconta come la pittura, applicata direttamente sulla stampa, le permetta di aggiungere un ulteriore strato di significato, soprattutto quando si tratta di affrontare argomenti caldi legati alla violenza e alla memoria storica. «Visivamente volevo di più. Il punto di partenza per un pittore è la tela bianca. Per me quella tela era la stampa. Spesso la pittura aggiunge qualcosa in più alla storia».

‘Grace Jones at Cinandre’, 1974. Foto: press
È però l’uso innovativo della luce il suo vero marchio di fabbrica. Le sue immagini, spesso realizzate dopo il tramonto, catturano istanti effimeri che si rivelano potenti e senza tempo. «Affrontare la luce è per me l’obiettivo principale», ha detto anni fa. «Ho scattato molto al buio, per questo cerco la luce. In tutto il mio lavoro improvviso con quella che c’è. Lascio che lo spirito mi guidi».

‘America Seen through Stars and Stripes’, 1976. Foto: press
La mostra di M77 è una rara occasione per entrare in contatto con il suo mondo. Ma è anche un’importante occasione di riflessione sul ruolo dell’immagine come mezzo per rappresentare la complessità dell’esperienza umana. «La vita è spesso cavalcare le maree», racconta. «La fotografia mi permette di fuggire dal dolore e di sopravvivere».