Quella volta che Bob Wilson ha illuminato la Pietà Rondanini | Rolling Stone Italia
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Quella volta che Bob Wilson ha illuminato la Pietà Rondanini

Il celebre artista e regista è stato a Milano in occasione del Fuorisalone e ha creato un dialogo con l'opera "non finita" di Michelangelo. Ecco 'Mother'

Mother Bob Wilson

'Mother' di Bob Wilson

Foto: Lucie Jansch

Sipario, buio tutt’attorno. Incedono le note dello Stabat Mater di Arvo Pärt. Per interminabili secondi non accade nulla. Lentamente, iniziano a filtrare le luci. Flebili all’inizio, poi sempre più forti. Si intravedono i contorni di quella che è considerata una delle sculture più lancinanti e misteriose della storia dell’arte: la Pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti.

È la terza scultura che il maestro ha dedicato al tema della pietà, dopo quella a San Pietro e la Pietà Bandini di Firenze. La luce la plasma lentamente, quasi fosse un massaggio, quasi la stesse scolpendo di nuovo. Prima le scopre piccoli scorci, poi i volti di Cristo e di Maria appaiono più evidenti. Inizia così Mother, performance e prezioso omaggio curato da Franco Laera, dedicata dal regista americano Bob Wilson a Milano e al Salone del Mobile 2025. «La luce è ciò che dà forma allo spazio», spiega Wilson. «Senza luce, lo spazio non esiste». E in effetti, chi assiste ai 30 minuti di performance si sente quasi sospeso, fluttuante. L’unica cosa che stabilizza sono due linee luminose che si accendono e spengono e sembrano ricordare un orizzonte ideale.

Mother Bob Wilson

‘Mother’ di Bob Wilson. Foto: Lucie Jansch

L’obiettivo di Wilson è dar vita a «uno spazio dove perdersi nei propri pensieri e nelle proprie emozioni». È quello che avviene. «È questa la mia visione del capolavoro di Michelangelo, non finito prima della morte, diviso tra un sentimento di timore reverenziale e l’altro di ammirato stupore», ha spiegato Wilson. «Prevale su tutti un sentimento di serenità, di pace con se stessi pur di fronte alla tragedia. Nulla a che vedere con la religione: è un’immagine universale, un’esperienza spirituale che muove qualcosa di più profondo che non necessita spiegazioni». L’effetto finale è un’opera nell’opera, una magia luminosa di rara poesia. Rara almeno per noi comuni mortali, ma non per questo totem della creatività contemporanea.

Ottantacinque anni, altissimo, voce appena sussurrata, Wilson non è un volto pop, raramente lo si vede nelle cover dei magazine. Eppure chi mastica arte lo considera una leggenda vivente. Originario di Waco, Texas, città famosa per il massacro della setta di David Koresh, è uno di quegli artisti che non si possono raccontare con un’unica definizione. Architetto di formazione, regista di culto, pioniere della performance, creatore visivo: la sua traiettoria attraversa il teatro, l’opera, l’arte contemporanea e il design con una coerenza rara, fatta di lentezza, silenzio e visioni scolpite nel tempo.

La sua parabola inizia tra l’Arizona e New York, dove – studente al Pratt Institute – si divide tra i corsi di architettura e quelli della vedova di László Moholy-Nagy, Sybil. È lì che incontra il teatro, sedotto dalle coreografie di Balanchine, Merce Cunningham e Martha Graham. Tre nomi che evocano un che di mistico. Il vero momento fondativo nella carriera del regista però non arriva su un palcoscenico, bensì fra le quattro mura di casa con l’adozione di Raymond, un ragazzo sordomuto che salva dal riformatorio. Per comunicare con lui, Wilson è costretto a reinventare il linguaggio. Nasce così Deafman Glance (1970), opera muta e ipnotica che debutta a Iowa City e lo impone subito come uno dei registi più radicali della sua generazione. Wilson porta lo spettacolo fino a Parigi mietendo consensi. Uno su tutti, quello di Pierre Cardin.

A quell’epoca King Bob ha già fondato la Byrd Hoffman School of Byrds, compagnia sperimentale intitolata a Miss Hoffman, la sua insegnante di danza, che lo aiutò da ragazzo a superare la balbuzie. Con i Byrds mette in scena lavori monumentali. Uno su tutti: KA MOUNTain and GUARDenia Terrace, performance di sette giorni tra le montagne dell’Iran.

La consacrazione definitiva arriva nel ’76 con Einstein on the Beach, in collaborazione con Philip Glass, Lucinda Childs e Christopher Knowles. È un’esperienza totale: niente narrazione lineare, solo immagini, musica e movimenti che si espandono nello spazio-tempo. Un’estetica rigorosa, essenziale, che diventerà la sua firma. Dagli anni Ottanta in avanti si avvicina ai grandi classici shakespeariani senza mai perdere la sua identità visiva. Firma anche regie d’opera indimenticabili come una Madama Butterfly ridotta all’osso in una composizione di luce, colore e silenzio.
Esattamente lo stesso approccio lo guida nell’arte contemporanea. I suoi storyboard diventano opere esposte nelle gallerie, fino alla consacrazione del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1993, per l’installazione Memory/Loss ispirata alle opere di T.S. Eliot.

Mother Bob Wilson

‘Mother’ di Bob Wilson. Foto: Lucie Jansch

Il suo universo visivo conquista anche la tv grazie a una residenza presso LAB HD, ideata da Ali Hossaini. Nascono così i celebri Voom Portraits, una serie di video in alta definizione che ritraggono celebrità, animali, senzatetto e premi Nobel come fossero icone fuori dal tempo (da Isabella Rossellini a Brad Pitt). Tra questi, il più noto è quello di Lady Gaga, realizzato a Londra in tre giorni di riprese-maratona, con un’intensità al limite della trance. I video vengono esposti al Louvre nel 2013 nella mostra Living Rooms accanto ai capolavori di David e Ingres.

«Sono attratto da tutto ciò che accade nel quotidiano. Penso che un artista debba usare gli strumenti e i prodotti del suo tempo», mi ha raccontato Wilson solo poche settimane fa. Anche per questo, forse, non ha mai smesso di reinventarsi. Nel 1991 fonda il Watermill Center, laboratorio artistico e residenza per creativi a Long Island, immerso in un paesaggio curato come un’opera d’arte. Il suo rapporto con il design e l’architettura non è certo accessorio: nel 2011 progetta un parco pubblico a Helsinki dedicato al designer Tapio Wirkkala, con lampade lightbox e piazze tematiche dedicate agli oggetti quotidiani. Mentre due anni più tardi riceve il Praemium Imperiale per il teatro/cinema dalla Japan Art Association.

Insomma, da sessant’anni Robert Wilson continua a ricordarci che ogni gesto può diventare arte, ogni immagine una soglia, ogni sedia un racconto. E che a volte, per dire davvero qualcosa, bisogna togliere tutto il resto.

«Se avessi studiato teatro in modo accademico, non farei il tipo di teatro che sto facendo oggi», ha affermato. Un giorno gli ho chiesto di spiegarmi meglio ciò che volesse dire con quell’apparente nonsense. Ecco la sua risposta: «Molti anni fa ho curato una mostra a San Antonio, in Texas, insieme ad alcuni ragazzi considerati “difficili”. Ricordo che dovevamo costruire alcune sculture, ma i materiali finanziati dalla Rockefeller Foundation non arrivarono mai. C’era chi voleva annullare il progetto, io invece ho insistito: “facciamolo lo stesso”. Così siamo andati da uno sfasciacarrozze e abbiamo raccolto di tutto: un parafango, una sedia rotta, una catena. Abbiamo trovato modi alternativi per assemblare i vari oggetti, senza mai usare gli strumenti tradizionali. Ecco, alla fine, il problema dell’educazione sta tutto qui: ci dicono che per costruire una scultura servono chiodi e martello, ma in realtà non è così. I modi per creare sono infiniti. Vivere la vita è l’apprendimento più grande».

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