Shirin Neshat, raccontare la donna oggi | Rolling Stone Italia
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Shirin Neshat, raccontare la donna oggi

Si apre oggi al Pac di Milano la mostra 'Body of Evidence', che ripercorre 30 anni di carriera dell'artista e fotografa iraniana in oltre 200 opere e video-installazioni. E ci ricorda quanto la questione femminile sia ancora spalancata

Shirin Neshat

'Rapture' di Shirin Neshat

Foto: press

Il tema è attualissimo: la precarietà della condizione femminile non soltanto in Iran, ma anche nel resto del mondo. Shirin Neshat sta sempre, suo malgrado, al passo con i tempi. Le sue immagini in rigorosissimo bianco e nero sono tanto raffinate quando dure, pugno alla bocca dello stomaco. I suoi neri sono nerissimi, i bianchi risplendono.

 

«Non mi piacciono molto i colori», ha detto tempo fa l’artista, appunto iraniana. «Con il bianco e nero togli tutte le cose superflue. Il colore è seduttivo, e può essere in un certo senso pericoloso. C’è invece una profonda bellezza nel bianco e nero». Ed è proprio attraverso questo gioco di contrasti che la fotografa e filmmaker originaria di Qazvin (ma ora residente negli USA) indaga la complessità della dimensione femminile in Iran dopo la rivoluzione islamica, ma esplora anche le ampie sfere dell’intimità e della sessualità e si concentra sulle infinite sfaccettature culturali, sociali e psicologiche della donna.

 

Shirin Neshat

Foto: press

Ora la poetica di Shirin Neshat atterra come un UFO al Pac di Milano, dove, dal 28 marzo all’8 giugno, va in scena Body of Evidence. La mostra, curata da Diego Sileo e Beatrice Benedetti, ripercorre trent’anni di carriera in oltre duecento opere fotografiche e una decina circa di video-installazioni, diventate cult ed entrate a far parte delle maggiori collezioni museali al mondo, come quelle del Whitney Museum, del MoMA, del Guggenheim di New York e della Tate Modern.

 

Il percorso lungo le cinque sale, la balconata e il parterre dell’esibizione milanese è una sorta di catarsi. Un cammino spirituale che deve obbligatoriamente fare i conti con temi come passione e  sofferenza contemporanea. Si parte con il botto con il video Fervor (2000), che racconta ciò che unisce (e che soprattutto separa) uomini e donne. Nell’installazione i primi indossano la camicia bianca, le altre il chador nero. C’è il vuoto e il pieno, il buio e la luce. Nonostante la netta divisione, un uomo e una donna si lanciano sguardi di passione, violando le regole. Per loro non vi sarà speranza: ciascuno alla fine andrà per la sua strada e il loro desiderio resterà prigioniero della rigida geometria visiva del video, che impedisce per sempre ai due di incontrarsi.

 

Shirin Neshat

‘Rebellious Silence’ di Shirin Neshat. Foto: press

Si viaggia sempre sul filo del dualismo, tra Oriente e Occidente, tra veglia e sogno, tra realtà e rappresentazione. Così avviene per la video-installazione a due canali Land of Dreams (2019), immersa in un gruppo di foto disposte a guisa di salón, o in Turbulent (1998), dove l’artista rappresenta il suo modo di descrivere il principio duale su cui si basa l’universo: maschio/femmina, natura/società, esilio/appartenenza, potere/libertà.

 

Vincitrice del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1999, del Leone d’Argento per la Miglior Regia al Film Festival di Venezia nel 2009 e del Praemium Imperiale a Tokyo nel 2017, Neshat si è confrontata nel corso del tempo con la fotografia, il video, il cinema, il teatro e la musica (indimenticabili le collaborazioni con Philip Glass e Ryuichi Sakamoto), creando racconti altamente lirici e visioni politicamente cariche, che mettono in discussione questioni come quelle relative a potere, religione e razza.

 

Shirin Neshat

‘Land of Dreams’ di Shirin Neshat. Foto: press

La chiave di tutto è però sempre lo sguardo femminile. È attraverso questa lente che interpreta la storia e la rielabora per spiegare il presente. Ciò è avvenuto fin dagli esordi nei primi anni Novanta, quando raccontava per immagini i celebri corpi di donna istoriati con calligrafie poetiche in Women of Allah, uno dei suoi cicli chiave, la cui serie di ritratti è esposta quasi integralmente nella balconata del Pac. Lo stesso si è quindi verificato con The Fury, installazione che di fatto ha anticipato “Woman, Life, Freedom”, il più importante movimento di protesta dall’avvento della rivoluzione iraniana nel 1979. «Io cerco le emozioni», ha spiegato una volta l’artista. «Amo essere commossa emotivamente. L’arte è un sottile equilibrio attraverso cui crei esperienze interiori».

 

Il viaggio lungo le scoscese alture della mostra milanese si chiude con un’altra potente opera video dal titolo di Passage (2001). Qui si parla del  tema universale della morte e della sepoltura dei corpi, un rituale presente in molte culture. C’è il simbolismo del fuoco, della terra e dell’infanzia. Tutti alludono a una condizione umana ciclica che riavvolge il tempo a ogni evento di rinascita. Ecco, forse  si incontra proprio qui, per paradosso, il messaggio più ottimista dell’intera esibizione. Perché si parla di una fine ma anche di un nuovo inizio. In tempi cupi come questi, è già qualcosa.