Tracey Emin si rimette in gioco con una grandissima mostra a Firenze a Palazzo Strozzi, la prima mai dedicata all’artista in un’istituzione culturale italiana, da oggi aperta al pubblico. Una sessantina di opere quelle allestite nel museo, che permetteranno di attraversare le tematiche principali e i momenti cruciali che hanno fatto parte della sua vita e della sua arte.
Curato da Arturo Galansino, Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi, il percorso traccia un viaggio intenso attraverso i temi a cui l’artista ha dedicato la sua ricerca, ossessiva e incessante: corpo, desiderio, amore, sacrificio, maternità, memoria, sacralità.
L’insegna della mostra di Tracey Emin a Palazzo Strozzi. Foto: Ela Bialkowska
Molte delle opere sono presentate in Italia per la prima volta, altre sono inedite e realizzate in occasione dell’esposizione. Nella poliedrica attività dell’artista troviamo tante forme di espressione. Tracey Emin spazia tra pittura, disegno, video, fotografia e scultura, sperimentando tecniche e materiali come il ricamo, il bronzo e il neon.
Sex and Solitude è il titolo scelto per la mostra, e ricalca, potremmo dire così, il vocabolario di cui si costella l’universo di questa artista, trasgressiva e al contempo fragile. Ed è proprio la fragilità che contorna e sottolinea il racconto, carico e pieno di riferimenti, in cui l’archetipo della madre si trasferisce dalla mancanza al ricordo della sua, all’insegnamento di quella indipendenza che da lei le è stata trasferita.
Un’opera di di Tracey Emin. Foto: press
“Enfant terrible” dei Young British Artists negli anni Ottanta e candidata al Turner Prize nel 1999 per l’esposizione My Bed alla Tate Gallery di Londra. Nel 2007 Emin ha rappresentato la Gran Bretagna alla cinquantaduesima Biennale di Venezia. Nel 2011, invece, è stata nominata professoressa di Disegno alla Royal Academy of Arts di Londra, seconda donna a rivestire questa carica nella storia dell’istituzione britannica.
Una dedizione, quella di Emin, che attraversa il tempo e diverse verità. Senza filtro. Nulla che cerchi di ammorbidire il forte sentire che l’artista manifesta e che accomuna tutta la sua espressione artistica. L’onestà di fronte al dolore, l’amore, la morte, i traumi che la vita ci conduce ad affrontare. E lei ci è passata attraverso, facendo esperienze di cui forse non è più fiera, con dolore, ma di cui non ha potuto fare altrimenti, riconoscendosele nella sperimentazione stessa della vita.
Un’opera di Tracey Emin. Foto: press
È attraverso il suo corpo che l’artista, nata in un sobborgo di Londra nel 1963, filtra ciò che le accade, traducendo in poesie espressive dal sapore crudo e onesto quello che ne rimane. Pensieri, umori, consapevolezze: tutto diventa opera profonda e intima. È un mettersi a nudo, metaforico e letterale. Vale anche per le emozioni, esposte agli occhi del mondo. Le opere di Tracey Emin rappresentano la vulnerabilità totale. È il suo racconto di una traduzione del mondo attraverso la pratica. L’apparente naturalezza e spontaneità del risultato finale è quello della sua dedizione.
Emin smise di dipingere nel 1990, quando rimase incinta. Si trattò di una crisi personale, durata sei anni, fino a quando decise di chiudersi in una sala all’interno di una galleria era lì ricominciare. Fu nuda per tre settimane e mezzo – il tempo tra un ciclo mestruale e l’altro – in una stanza a Stoccolma. Chiamò quell’atto performativo Exorcism of the Last Painting I Ever Made (“Esorcismo dell’ultimo dipinto che abbia mai fatto”), ricreato in questa occasione per Palazzo Strozzi.
‘Exorcism of the last painting I ever made’ di Tracey Emin (1996). Foto: press
Racconta così nell’intervista con il curatore: «Penso che il corpo abbia una sua memoria: il mio è stato ferito dall’amore, dal sesso, dagli interventi chirurgici, dallo stupro, dalle malattie trasmesse sessualmente e dagli aborti. È come se quella parte di me fosse insensibile ormai, per ragioni sia psicologiche che fisiche».
Su di una coperta realizzata dei primi anni Duemila (anch’essa presenta in mostra), si legge: Non mi aspetto di diventare madre, ma mi aspetto di morire sola.
‘I do not expect’ di Tracey Emin (2002). Foto: press
Della sua sperimentazione con il neon ne troviamo traccia al piano nobile come sulla facciata del Palazzo.
Memoria della sua infanzia a Margate, dove è cresciuta, e anche della sua esperienza con Carl Freedman nel 1995, gallerista ed ex compagno, il neon rappresenta un’energia pulsante, dove i colori irradiano positività. Ma ciò che ne scaturisce è anche carico della forza della parola e del suo messaggio. Uno dei neon più grandi, Love Poem for CF, accoglie i visitatori con il suo rosa abbagliante, ma nonostante questa apparente positività racconta della mancanza della persona.
È una solitudine, ed è un momento fondamentale per l’artista. Però non coincide con un senso di isolamento, arrivando a manifestarsi come un processo necessario alla creazione. Essenza stessa della creatività, vicina al divino, le permette di entrare in un’altra dimensione, un altro spazio, qualcosa che non è umano.
La mostra a Palazzo Strozzi non è una retrospettiva, ma un viaggio tematico attraverso i sentimenti e le emozioni di Tracey Emin. E una delle cosa più belle che vi troviamo è l’onestà con cui lei le esprime.