Esiste un collettivo che segnerà la storia della danza (e probabilmente anche quella del teatro, della regia video e della coreografia), e siamo pronti a scommettere che qualcuno ne starà ancora scrivendo sul numero di marzo di Rolling Stone 2325: si chiamano (LA)HORDE, sono francesi e sono «amici prima di qualsiasi altra cosa».
La loro ricerca sul mondo dei social approfondisce fenomeni che nascono nel metaverso e che diventano virali su piattaforme come TikTok e Instagram, ponendo l’attenzione sul punto di vista dei creatori digitali (che spesso sono anche i protagonisti dei contenuti video) e cercando di trasportare questo tipo di racconto sulla scena. Le domande-guida: come scolpire i corpi dei danzatori in uno spazio fisico? Come farli interagire con una camera che riprende l’azione da una determinata prospettiva? Che cosa può raccontare di più sulla realtà un obiettivo? Come si mescolano questi linguaggi sulla scena?

(LA)HORDE, ‘Room With a View’. Foto: press
L’anno di fondazione è il 2013, quando Jonathan Debrouwer e Marin Brutti tornano a Parigi dopo gli studi e incontrano Arthur Harel: contemporaneamente al consolidamento dell’amicizia, complice l’assidua frequentazione della scena clubbing parigina LGBTQ+, fra i tre iniziano scambi e aiuti pratici sui progetti di uno o dell’altra, fino a che la collaborazione e il confronto diventano indispensabili per portare avanti il prodotto artistico di ciascuno. Qui arriva la decisione di costituirsi come collettivo, con un nome volutamente traducibile in molte lingue e preceduto da un articolo femminile, per dichiarare in un colpo solo la volontà di mescolare linguaggi diversi e il forte credo nel pensiero non binario. Benvenuti al mondo cari (LA)HORDE, che da allora a oggi state dimostrando come l’arte possa raccontare il presente, utilizzando gli strumenti del presente, per darne una versione inedita ma senza inventare nulla.
Fra le primissime produzioni coreografiche del collettivo, tre anni prima del 2019 quando a (LA)HORDE è stata affidata la direzione artistica del prestigioso e lungimirante Balletto Nazionale di Marsiglia, compare TO DA BONE, lavoro che parte da una ricerca sulla jump style, stile di ballo degli anni ’90 che ha avuto nuova vita grazie ai social nei Duemila. L’attrazione verso questo stile avviene su più livelli, come raccontano in varie interviste: prima di tutto è nato negli ambienti notturni, panorama molto caro al collettivo e dal quale continuano a trarre ispirazione ancora oggi. Poi è passato di moda ma attraverso i social è tornato vent’anni dopo come trend: la sua diffusione è avvenuta grazie a ragazzi e ragazze che, in giro per l’Europa e successivamente oltreoceano, imparano sequenze di passi di 20/30 secondi in modo totalmente autodidatta, si riprendono con un telefono e diffondono il video sui social.

(LA)HORDE, ‘To Da Bone’. Foto: Tom de Peyret
In questo fenomeno sono racchiusi molti degli strumenti, dei linguaggi artistici, dell’estetica e delle modalità su cui il collettivo fonda la sua produzione artistica: TO DA BONE nel 2016 era una coreografia di dieci minuti che ha vinto svariati premi. L’anno dopo è evoluto in uno spettacolo di un’ora con una quindicina di danzatori in scena provenienti da tutto il mondo, estremamente di effetto per l’intensità e la precisione di esecuzione dei passi. Una danza potente che non arriva da nessuna parte e che è fine a se stessa, il che riflette una sorta di frustrazione latente.
La performance racconta come questa forma di intima ribellione giovanile, che nasce da soli in cameretta ma che grazie alla diffusione sui social genera reali comunità di jumpers che si incontrano/scontrano nelle battle, sia un ottimo esempio di uso degli strumenti e delle possibilità di condivisione che la nostra epoca offre.

(LA)HORDE, ‘Room With a View’. Foto: press
Su questo piano il discorso continua e vede la sua forma più alta in AGE OF CONTENT, una delle produzioni più alte del collettivo e che da un paio d’anni circuita senza tregua nei principali teatri e festival d’Europa: costruito su un gioco di parole, lo spettacolo si interroga sul limite del nostro controllo sul consenso che diamo, nella vita virtuale come in quella reale, sugli atti sessuali, sull’utilizzo della nostra immagine e in generale sulla nostra presenza fisica nel mondo.
I danzatori del Balletto Nazionale di Marsiglia sono in scena come avatar di un videogioco, danzano, si scontrano, esprimono desideri, fuggono, si uniscono e celebrano la vita in una sorta di versione potenziata di loro stessi. I loro outfit sono specchio della cura minuziosa che il collettivo ha sui dettagli, in particolare se si tratta di fashion e costume. I danzatori sembrano indossare abiti casual, quelli che si potrebbero vedere ogni giorno nelle vie di una qualsiasi metropoli. In realtà ciascun capo (quasi sempre di recupero, di seconda mano o concesso da archivi di brand) racconta una storia precisa, talvolta rifacendosi a mode passate.

(LA)HORDE, ‘Room With a View’. Foto: press
AGE OF CONTENT ingloba una moltitudine di stili di danza diversi a una messa in scena che mescola i trend di TikTok con la sensualità arrapante di OnlyFans, e vecchi filtri di Instagram con scene da stunt-man hollywoodiani. Il risultato è un carnaio di immagini e azioni che diventano caricatura della nostra contemporaneità, sia nel metaverso che nella vita “normale”. Proprio a gennaio scorso il trio parigino ha presentato una versione di questo lavoro ancora più potente: Quale spazio, se non un museo, dovrebbe contenere e conservare le tracce del nostro tempo? Da qui l’adattamento dello spettacolo alle sale del Louvre nella notte di Deep Stream, in chiusura alla mostra Figures of the fool. Con uno squadrone di tecnici, luciai e videomaker, il collettivo ha ripensato insieme ai danzatori la messa in scena di alcune parti di AGE OF CONTENT, marcando ulteriormente la presenza disumana e gli avatar degli interpreti. I quali, di fianco alle statue del museo (che in un certo senso sono la “versione altra e potenziata” dell’uomo del passato), danzano, camminano, ricreano pose plastiche, il tutto riprendendosi con un telefono sia con la camera selfie che con le esterne in presa diretta.
Il risultato è difficile da descrivere: davanti agli occhi si stagliano presente e passato che dialogano attraverso il movimento dei performer, è come vedere la realtà aumentata senza però l’aiuto di un visore. È un po’ il succo di quell’ingrediente magico di (LA)HORDE che, come dicevamo all’inizio, farà sì che li ritroveremo nei libri di storia. Già ora, comunque, questi illustri narratori e scultori dei corpi dell’epoca post-internet non sono sfuggiti all’attenzione di star del calibro di Madonna, che ha chiesto loro di coreografare il Celebration Tour. O Rihanna (spoiler!), o di fashion brand come Burberry e Isabel Marant: tutti vogliono essere (LA)HORDE.