La fotografia di Robert Mapplethorpe è una guerra in corso. Sotterranea, eppure voluta. Dalla società occidentale, pacificata e benestante, contro i desideri e le pulsioni liberatrici di quella che al tempo di Mapplethorpe fu una generazione in estatico e tragico bilico tra ribellione e droga, musica e arte, palingenesi e affermazione del sé. Una pace poi verrà, ma sarà imposta al caro prezzo dell’esclusione della diversità e di coloro i quali mai potranno accettare alcun tipo di allineamento, tanto meno quello di una borghesia triste e provinciale come quella americana.
Robert Mapplethorpe fu anche, e forse prima ancora che un grande fotografo, uno degli astri nascenti della controcultura americana che s’impose tra gli anni Settanta e Ottanta. Ovviamente non si può non pensare anche a Patty Smith, che di Mapplethorpe fu compagna e sorella, amica fedele e sempre al suo fianco, dagli esordi fino al successo che coinvolse entrambi. Loro due non erano altro che una parte di quel vasto gruppo di artisti, scrittori e performer che innondarono con la loro vitalità le strade di New York senza darsi limite alcuno. Una New York che ancora oggi vive di quella luce e che in quegli anni era tra le città più povere e pericolose d’America (una città amministrativamente in fallimento), ma luogo ideale per divenire il ritrovo privilegiato di artisti e sbandati in libera uscita – e senza soldi – in cerca di una qualche fortuna, ma sopratutto di uno spazio in cui esprimersi e poter stare insieme amandosi e litigando senza requie alcuna.

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New York fu considerata allora dal resto degli Stati americani una sorta di Sodoma attraversata da maniaci, sbandati, comunisti ovviamente, privi di ogni forma di morale ed etica. In parte fu probabilmente anche questo, ma di certo fu la culla di un certo tipo di arte, fotografia e letteratura che ancora oggi offre il senso di una libertà che fu davvero e realmente grandiosa, una libertà per cui valse vivere senza freni e senza alcun risparmio di sé.
Mapplethorpe mischia deliberatamente quello che viene considerato profano, ovvero il corpo, e la sua rilucente nudità fatta di muscoli e sesso, con il sacro e con la sua simbologia: una provocazione, ma non solo. Si tratta infatti per l’artista newyorkese di dare evidenza a una contraddizione e a un conflitto, i quali colgono pienamente una logica istituzionale che più che religiosa è principalmente di potere, forma di controllo sociale priva di ogni ragione che s’impone di blindare le coscienze limitandone i desideri.

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La mostra ora in corso presso Le stanze della fotografia sull’Isola di San Giorgio all’interno del bacino di San Marco, Robert Mapplethorpe. Le forme del classico a cura di Denis Curti riporta in Italia (finalmente) l’artista americano all’interno di un progetto ampio di esposizione che vedrà coinvolte, insieme alla sede veneziana, anche Milano e Roma.
Seppur non paragonabile alle passate (e meravigliose) mostre ideate da Germano Celant (in particolare quella di Torino e prima ancora quella sempre a Venezia, ma nella sede di palazzo Fortuny, prima che il palazzo venisse devastato da un restauro di dubbio gusto e kitsch), Robert Mapplethorpe. Le forme del classico prova a restituire almeno in parte il senso del lavoro fotografico dell’artista nato a New York nel 1946 da una famiglia cattolica di origini irlandesi.

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Una forma del classico che tuttavia rischia in parte e purtroppo il didascalico con un’impostazione espositiva che vede organizzate per categorie le fotografie: autoritratti, ritratti, nudi femminili, nudi maschili, fiori. Una disposizione che se in parte impoverisce e offusca non poco il discorso politico e artistico (sempre fortemente intrecciati tra loro) di Mapplethorpe, quanto meno però restituisce – grazie anche ai duecento scatti presenti in mostra – un’idea dell’ampiezza e della capacità interpretativa e di lettura di un fotografo che morendo giovane, senza aver raggiunto nemmeno i quarant’anni, doveva ancora raggiungere pienamente l’apice artistico. Un artista che probabilmente avrebbe espanso la propria capacità espressiva andando oltre il lavoro di fotografo, probabilmente indugiando in una pratica inedita di montaggio e al tempo stesso assumendo sempre più il ruolo di performer – come già si può evincere dai suoi self-portrait e dalla loro evoluzione negli anni.
Va considerato in ogni caso che questa sull’isola di San Giorgio è solo una parte di un progetto espositivo ampio che vedrà il suo pieno completamento nel 2026: prima con un’esposizione a Milano dal titolo Robert Mapplethorpe. Le forme del desiderio presso la sede di Palazzo Reale; e poi a Roma, con Robert Mapplethorpe. Le forme della bellezza al Museo dell’Ara Pacis.

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La forza espressiva, provocatoria e irriverente della fotografia di Mapplethorpe – insieme alla sua radicale integrità artistica – non possono in ogni caso lasciare il visitatore della mostra veneziana insensibile e ancor meno indifferente. L’azione di Mapplethorpe rimescola fortemente ogni pregiudizio e apre a inedite riflessioni tanto più in un tempo tragicamente segnato da una conservatorismo a tratti assurdamente ottuso se non ridicolmente patetico.
Ritrovare davanti agli occhi queste fotografie in cui si vede coinvolta la società artistica e intellettuale dell’epoca, in un filo senza discontinuità alcuna tra moda, design, arte e letteratura, significa riprendere in mano un discorso che in parte la società di massa e della comunicazione ha preferito negli anni non solo evitare, ma inglobare conformandolo e in buona parte pacificandolo. In Mapplethorpe non esiste alcuna possibilità di normazione. Il suo è un grido disperato e anche feroce, fortemente erotico e pornografico; però al tempo stesso dolcissimo e classico. Nessuna tregua gli può essere imposta e tanto meno nessuna forma di attenuazione dei toni, così come dell’effetto provocatorio ed emotivo che è in grado ancora di corrispondere a chi pone i propri occhi sui suoi lavori.

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Attraversare i bellissimi spazi de Le stanze della fotografia offre la possibilità di immergersi di volta in volta assolutizzando ogni singolo scatto, concentrandosi sulla forza evocativa di ogni fotografia.
Inutile farsi sommergere dalle sale e dalle loro duecento fotografie esposte, meglio scegliere con intima libertà e istinto da quali farsi di volta in volta provocare e rapire, di quali innamorarsi e da quali invece magari tenersi alla larga per timore o anche per un eccesso che può divenire alle volte difficile da sostenere. Tutto nelle fotografie di Mapplethorpe è corpo, e più ancora lo è negli splendidi scatti dei fiori che si pongono quasi parallellelamente ai nei nudi maschili. Peccato che l’allestimento si basi su una catalogazione tanto ordinaria e priva di ogni complessità da obbligare il visitatore a muoversi un po’ caoticamente per superare gli schemi proposti e per ritrovare così quei contrasti e quegli stridori che sono alla base di un lavoro artistico certamente coerente; ma da cui non si possono elidere spigoli ed eccessi, gusto, piacere, come anche dolore e tragicità.