È difficile da ammettere, ma ho la testa in marmo antico di un centurione romano da 136 kg in bagno. E la è colpa di David Bowie. Per la statua e il bagno.
Al college, tra la protesta contro l’apartheid in Sudafrica e il fumo delle sigarette ai chiodi di garofano, io e i miei amici ci nutrivamo costantemente di Bowie. Dai video musicali di China Girl e Let’s Dance alla routine di Klaus Nomi sulle note di The Man Who Sold the World al Saturday Night Live, fino a Miriam si sveglia a mezzanotte di Tony Scott del 1983. Quel film evoca risatine e fa alzare gli occhi al cielo adesso, ma all’epoca Bowie ci stava mostrando un’uscita aggraziata dal punk per addentrarci in… questo, una vita tra statue antiche e tende vaporose. Con tanto di musica Bauhaus e violoncello, lampadari di cristallo e sangue che esce da giugulari recise.
Dopo la laurea nel 1986, a 23 anni ho lavorato come reporter in un giornale di periferia. Portland ha una strada segreta chiamata Trinity Place, lunga un isolato e fiancheggiata da case squallide che un tempo erano grandiose. Il diploma in giornalismo non era un biglietto per fare soldi. Grandi prestiti al college, sì, ma guidavo ancora la Ford Pinto che avevo comprato, usata, al liceo e vivevo in un seminterrato di un edificio che sembrava Downton Abbey. Lo Stadio Civico si trova a circa un isolato da Trinity Place, e quell’estate la città consentiva di organizzare alcuni concerti rock nello stadio nonostante le lamentele per il rumore. Così, un sabato pomeriggio ho sentito Bowie cantari primi versi di Young Americans dalla finestra. La musica si è fermata. Mi sono accucciato. I vicini si sono uniti a me con la birra. E la stessa canzone è ricominciata. David Bowie stava facendo il soundcheck per l’esibizione di quella sera durante il Serious Moonlight Tour. Cantava Young Americans e si fermava. Quindi ripartiva dall’inizio. Ancora ed ancora. Per tutto il pomeriggio, io e i miei amici ci sentivamo come in un video musicale, mentre ballavamo sulla nostra perfetta backlot di Hollywood, bevendo birra e godendoci un concerto a cui nessuno di noi poteva permettersi di partecipare. La canzone a ripetizione, la birra e il sole erano ipnotici.
Una decina di anni dopo, la mia carriera di reporter non aveva portato da nessuna parte. A quel tempo scrivevo segretamente libri e cercavo un editore. Uno dei più celebri, Gerald Howard, faceva un’apparizione a una conferenza di scrittori a Everett, Washington. I “ragazzi di Gerry”, come venivano chiamati, erano famosi. La sua scuderia aveva incluso Irvine Welsh, Bret Easton Ellis, David Foster Wallace, Jim Carroll e io volevo unirmi alla band. Non potevo permettermi di partecipare alla conferenza, ma l’ho rintracciato in un bar dell’hotel dove era circondato, a tre livelli, da aspiranti romanzieri. Qualche rivelazione: indossavo una camicia vaporosa da pirata residuo dei miei giorni alla Adam Ant, un indumento che una gentile scrittrice anziana aveva chiamato “una bella blusa”. Non riuscivo ad avvicinarmi a Gerry Howard, quindi ho chiesto al barista di cambiarmi 10 dollari in quarti, li ho inseriti nel jukebox e ho selezionato la stessa canzone quaranta volte. Era Young Americans, un brano che avrei potuto ascoltare per sempre su un’isola deserta. La maggior parte delle persone era seccata. Presto tutti se n’erano andati e io avevo Gerry tutto per me. Alla fine gli ho venduto Fight Club e altri 15 libri. Ancora oggi, lui non ricorda quella canzone, che suonava ancora e ancora e gli hater che mi odiavano mentre lasciavano il bar.
Cosa ho comprato con i soldi del libro? La bella vita, ovviamente, modellata dal vampiro David Bowie. Statue antiche in marmo. Tende gonfie e di classe. E, sì, un bagno. Grazie signor Bowie. Eri il mio modello, il mio eroe e il mio salvatore. Mi mancherai tantissimo.