Alberto Piccinini: Ciao come va? Io pensavo di tatuarmi da qualche parte l’inizio dell’ultimo fumetto di Zerocalcare: «Ciao so che è grottesco parlare dei cazzi miei mentre si consuma una tragedia epocale». Eccetera. Stavo pensando se tatuarmi nel caso anche l’“eccetera”, o soltanto “tragedia epocale”. O se, al limite, prendere tutto e farci uno sticker per il frigorifero. Stavo pensando anche di aprire le finestre e di mandare a tutto volume Now and Then dei Beatles e basta, così per tutta la giornata, anche se oggi mezzo piove e mezzo c’è il sole. Sempre su Facebook o non so dove ho letto il post di uno che diceva: «C’è gente che non sa fare neppure un barrè sulla chitarra e si permette di dire che l’ultimo singolo dei Beatles è troppo Lennon, troppo poco finito». I Beatles ricostruiti da Peter Jackson hanno la forza di una saga mitologica, parlano di mortalità, tecnologia, amicizia. Il dibattito sui cazzi nostri invece è la morte di tutto, la fiera del dilettante, il circolo del bullo. «I disertori di Lucca» non era il titolo del pezzo di Francesco Merlo, già famigerato, proprio contro Zerocalcare? Disertiamo da tutto.
Giovanni Robertini: Disertare ReteQuattro e anche La Repubblica: immagino che Zero sia già pronto col suo “sti cazzi” quando da Robinson o dal Venerdì gli chiederanno un’intervista o un disegnetto. Del resto questo conflitto nel conflitto è generazionale, e tutte le armi retoriche di quel mondo di opinionisti sono vecchie, spuntate, l’estinzione è vicina. L’hai vista la pagina Instagram “Fronte Maranza per la Liberazione della Palestina”? Non ho idea di chi siano, gli ho pure scritto sperando di riuscire a fare due chiacchiere per un’intervista e mi hanno risposto che al momento sono molto impegnati in altri movimenti e collettivi per via dell’emergenza in Palestina. Non li ho neanche mai visti, anche se potrebbero essere loro i ragazzi di seconda generazione alla testa del corteo romano di qualche settimana fa “con Tn o calzini e ciabatte” – cito una loro dida di IG – o in qualche raduno milanese del sabato pomeriggio tra Piazza Duomo e Piazza Gae Aulenti sventolando bandiere. So solo che, anagraficamente, socialmente e quindi politicamente sono loro il futuro con cui ci tocca fare i conti. La pagina Ig mette in scena universi apparentemente lontanissimi: trapper, militanza, ironia. Potere dei social, un mondo “larger than” un editoriale o un talk show, troppo complesso anche nelle sue contraddizioni per essere riportati ai minimi termini del dibattito continuo.
Alberto Piccinini: Grazie al “Fronte Maranza per la Liberazione della Palestina” stavo ascoltando Rajieen, un pezzo scritto da 25 artisti rapper e cantanti arabi appena uscito. Il titolo significa “ritorneremo”, loro ne parlano come una specie di We are the world in sostegno del Palestine Children Relief Fund. Musicalmente sembra un Mahmood appena più drammatico. Politicamente magari è discutibile, non lo so, non so più giudicare ogni retorica costruita sul mito della terra nostra dove bisogna a tutti i costi tornare. Ma esiste sempre grazie al Fronte Maranza e anche al corteo dell’altro sabato a Roma dove sono stato, perché i ragazzini arabi di seconda generazione la cantavano tutti e mi facevano venire i brividi ho sentito anche Mawtini di Mourad Swaity, un cantante palestinese di Jericho e il resto non so perché i suoi social sono soltanto in arabo, che ha trasformato in una canzone struggentissima un vecchio inno della Palestina. Mawtini significa patria mia. Di cosa altro parlano le canzoni se non del fatto che la tua felicità non è qui, ancora?
Giovanni Robertini: E ogni maranza infelice o rabbioso è infelice e rabbioso a modo suo. La felicità sarà sempre l’isola che non c’è di Bennato: «Se ci credi ti basta, perché poi la strada la trovi da te». E la terra che non c’è esiste: sono la Palestina e Israele. È la speranza di una casa per i maranza che stanno 24/7, tutto il giorno tutti i giorni, in strada come nel video di Zefe C’est la rue, italianissimo, girato nella periferia di Novara. Ecco, nella pagina Ig del Fronte Maranza ci sono quasi solo immagini di strada, prese dal telefonino e dai video rap di YouTube, ma non sono le stesse strade dei servizi dei Tg e dei talk, come fosse un Google Maps craccato, libero, resettato dai file del vecchio mondo in via d’estinzione. Sono le strade di Baby Gang che spoilera sui social un pezzo col ritornello Free Palestine, ma anche le strade delle baby gang nelle pagine di nera. Strade che non possiamo cancellare dalle mappe.
Alberto Piccinini: Ho avuto un deja vu, improvviso, fortissimo: «Stannu fiacche le cose stanno fiacche», cantava Don Rico del Salento in Baghdad 1.9.9.1. te lo ricordi? Il Retequattrismo nella sua forma acuta, che è quella della guerra, comincia con l’Iraq di Saddam, si riproduce uguale a se stesso l’11 settembre 2001, resta appostato nell’ombra tra i fantasmi come se fosse un eterno 12 settembre, riemerge adesso con l’armiamoci e partite del cast di opinionisti di Libero, Il Giornale, Il Foglio (che sono i peggiori, i più isterici), e di La Repubblica (che sono i più cattivi). Ho visto Molinari, il direttore di Repubblica, gelido in diretta come un giudice di Masterchef invitare Carmen Lasorella a “chiedere scusa” per aver messo in dubbio, giornalisticamente parlando, la storia dei bambini decapitati. Ci sono rimasto malissimo io, figurati.
Giovanni Robertini: Visto che hai citato quel pezzo, il pezzo, degli Assalti Frontali, Baghdad 1.9.9.1., non posso dimenticare le rime su Maurizio Cocciolone, il pilota italiano che insieme al collega Bellini fu tenuto prigioniero dagli iracheni per 47 giorni. Al rientro Cocciolone si fece tutti i talk possibili e immaginabili e vendette anche le foto del suo matrimonio a un giornale di gossip, ma non gli venne concessa la famosa Medaglia al Valor Militare pare perché le registrazioni della scatola nera del suo Tornado ci restituivano un Cocciolone non eroe, ma esitante di fronte alla missione di guerra. E da lì la rima «Cocciolone esempio per la diserzione». Ora Cocciolone vive in Brasile e forse in questo momento sta ascoltando Now and Then dei Beatles sotto l’ombra di un bel cocco.