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Federico Buffa porta a teatro Kobe Bryant: «Il personaggio più complesso che abbia mai raccontato»

"Otto infinito , Vita e morte di un Mamba" esordirà il 3 e 4 febbraio a Reggio Emilia per poi spostarsi per 4 date a Bologna. Ci siamo fatti raccontare da Buffa il suo stretto legame con l'atleta più contraddittorio di sempre. L'intervista

Foto: Gabriele Lugli

Quando Federico Buffa parla di Kobe Bryant lo chiama solamente Kobe e non usa (quasi) mai i tempi passati. Sarà per deformazione professionale, visto che sta provando lo spettacolo a lui dedicato proprio in questi giorni o sarà perché è la prima volta che ne parla davvero dopo la morte improvvisa di Kobe in quel tremendo 26 gennaio 2020 a cui ha fatto seguito un lungo e grande silenzio collettivo. Un silenzio «glaciale», racconta Buffa, capace di togliere le parole anche a uno che di parole sembra non mancare mai.

Lo scorso anno però quel peso è diventato un primo incontro con il pubblico dal titolo The Kobe Experiment che è servito come base per arrivare a formulare Otto infinito – Vita e morte di un Mamba, il suo nuovo spettacolo teatrale che debutterà lunedì 3 e martedì 4 febbraio 2025 al Teatro Valli di Reggio Emilia, la città italiana dove Kobe è cresciuto e ha provato le prime vere esperienze con la pallacanestro, per poi spostarsi al Teatro Duse di Bologna per quattro date: 10 febbraio, 17 marzo, 7 aprile e 16 maggio.

Prodotto da IMARTS – International Music and Arts con il contributo della Regione Emilia-Romagna, Otto infinito – Vita e morte di un Mamba con regia Maria Elisabetta Marelli e musiche Alessandro Nidi è uno spettacolo in otto capitoli per provare a metter ordine nella complessità di uno degli atleti più indecifrabili di sempre, un «dio greco» capace di vivere molte vite in una. Uno sportivo ossessivo, amante e studioso del gioco, ma anche un essere umano capace di mettersi contro tutti per un colpo di fulmine (con la moglie Vanessa, all’epoca nemmeno maggiorenne) fino ad arrivare a sfrattare da casa i propri genitori per non averlo supportato in questa spericolata vicenda amorosa.

Ne abbiamo parlato direttamente con Federico, che presto sarà dietro al leggio per raccontare un’incredibile pagina umana di sport.

Come nasce l’idea di uno spettacolo su Kobe Bryant?
Onesto? Non ne ho la più pallida idea. Per quattro anni mi sono limitato a pensare che fosse morto come Gaetano Scirea, ovvero non sull’impatto ma con quei 5 o 6 secondi in cui realizzi che stai per morire carbonizzato. Inoltre, a differenza di Scirea, Kobe era con la sua adorata figlia. Non sono mai uscito da questa cosa, non ero in grado di articolare alcunché. In questi anni attorno a quella morte c’è stato un silenzio glaciale, solo ora sta avvenendo una sorta di scongelamento, come il documentario fatto dalla CNN.

Come ti sei sbloccato da questa mancanza di parole?
Inizialmente l’idea è di fare una cosa diversa: niente teatri, ma i palazzetti dello sport con un certo accompagnamento musicale. Ma alla fine è andata diversamente. Per lo spettacolo ho scritto 8 capitoli, come il suo numero di maglia (e l’infinito), che trattano episodi della sua vita dalla nascita alla partita di addio nel 2016. È uno spettacolo con un forte condizionamento musicale di Alessandro Nidi, con una sezione ritmica superba. Ci sono io dietro un leggio, ma non ci saranno immagini – né foto né video. Non ho la più pallida idea di come verrà e se riusciremo a trasmettere qualche cosa. Ma questo è il nostro augurio.

Davvero? Eppure esordite tra pochi giorni, il 3 e 4 febbraio al Teatro Valli di Reggio Emilia.
Sarà un bel test: debuttiamo nella città dove lui ha fatto le scuole medie, Reggio Emilia, dove ha cominciato a giocare una pallacanestro più organizzata.

Come hai scelto gli 8 capitoli in una storia così piena come quella di Bryant?
L’ho diviso per macro-temi che reputavo fondamentali. Si dalla famiglia e dalla madre, una stupenda donna che dell’aristocrazia afroamericana di Philadelphia che si infatua di un atleta nonostante la famiglia non voglia. Si passa poi per il periodo italiano, la vita nelle highschool americane dove ha grandi problemi a relazionarsi perché non gli manca completamente lo slang afroamericano, una lingua che non ha mai sentito parlare. Lo seguiamo poi nel suo esordio NBA e in questa sua strepitosa cavalcata piena di contraddizioni iniziata praticamente all’All-Star Game del 1998 a New York quando fa segno a Karl Malone, il più grande pick and roller della storia dell’NBA, di spostarsi e non giocargli il pick and roll. Lì ero a bordo campo; ho viste centinaia di partite di Kobe. È una vita da eroe greco, con conclusione da un eroe greco. Il fato si è interessato a lui nel momento sbagliato, quando per la prima volta stava per riconciliarsi con il mondo.

C’è anche spazio per la sua vita privata?
Sì, in particolare per la moglie Vanessa, un’altra storia inspiegabile. Quando si conoscono lei è una 17enne messicana che a casa le uniche cose che le sono permesse sono ballare e studiare. Sua madre però è amica di una regista che sta cercando una comparsa che possa ballare in un video dove c’è Kobe e Vanessa supplicando la madre le dice: «Se mi mandi, mi faccio baciare e me lo porto a casa». E questo accade per davvero. Che storia è? Una superstar portata a casa in 2 ore da una minorenne, così. E naturalmente la famiglia di lui è contro questo amore e per questo Kobe con la sua famiglia vivrà in disaccordo fino alla fine. Kobe ha vissuto 7 vite in una. Nello spettacolo si arriva anche all’accusa di stupro, per il quale rischia l’ergastolo. Lui si presenta in tribunale, elegantissimo, impietrito, e segue le sei ore dell’udienza. Dopo prende un aereo e, con il vantaggio del fuso orario, riesce a tornare a Los Angeles per una partita di playoff. Arriva che la partita sta iniziando, fa 40 punti. Non è umano; nel pomeriggio è ad un’udienza che potrebbe portarlo in carcere e la sera fa 40 punti a una partite di playoff. La vita di Kobe è tutta così: vittorie, cadute, ricadute.

Hai raccontato di aver visto centinaia di partite di Kobe di persona. Ma per fare questi racconti, per scrivere queste narrazioni e questi spettacoli, devi anche andare dentro Kobe come uomo. Come ci si sposta dall’atleta alla persona?
Ho smesso di commentare l’NBA nel 2013, ma ho ancora un faldone con oltre 300 pagine di materiale che avevo tenuto su di lui. Così sono andato a rivedere tutto quello che magari non ricordavo. E in questo materiale l’umano esce. C’è ad esempio questa storia del fatto che lui ad un certo punto ha sfrattato i suoi genitori da casa, senza avvisarli. Visto che sono andati contro di lui sulla scelta della moglie, e sulla scelta di non firmare un contratto prematrimoniale (anche Jordan lo chiama e gli dice: «Ma sei pazzo a sposare così una nullatenente che potrebbe portarti via tutto?»), vende la casa dove vivono i suoi genitori senza avvisarli, tanto che un giorno si vedono arrivare gli agenti immobiliari con i nuovi proprietari per fare dei lavori. Kobe non ragiona attraverso schemi consoni, quindi tu l’uomo lo devi dedurre da queste azioni. Tutte le persone che l’hanno conosciuto lo descrivono come un personaggio incredibilmente contraddittorio, ma proprio per questo è estremamente affascinante.

È il personaggio più complesso che tu abbia mai raccontato?
Sì, nettamente. nemmeno Maradona si avvicina. Perché, sai, Kobe ha un’aggressività che non è giustificata, sua madre l’ha sempre trattato come fosse il suo compleanno, ed è cresciuto in un contesto che non giustifica l’assassino che era sul campo da gioco.

Hai detto in passato: «Kobe rappresenta lo sport per come dovrebbe essere». Cosa intendevi?
Lui è un innamorato folle del gioco, uno studioso; è uno che vuole tagliare la gola agli avversari ma senza mai essere scorretto. È quello che dice Magic Johnson prima della sua ultima partita (dove mette a referto 60 punti) davanti a un palazzetto strapieno: «Quest’uomo in 20 anni non ha mai deluso né noi, né la città, né il gioco». Ed è esattamente così; da questo punto di vista è il più grande di tutti i tempi.

E chi è stato per te il più grande di sempre nell’NBA?
Sono stato a bordo campo per gara 5 e 6, a Salt Like City, stagione 97/98: non mi chiedete più chi è il più forte perché non ho mai visto un essere umano prendere in ostaggio 20 mila spettatori, 9 giocatori e 3 arbitri come quello là: nessun essere umano mai potrebbe fare quello che ha fatto Jordan in quel periodo lì. Kobe sarà il più grande, ma la sua dedizione al gioco è incredibile. Vince il suo quinto titolo contro Boston nel 2010 con l’indice della mano con cui tira fratturato e i legamenti del mignolo sinistro stracciati. Ma lui da sempre crede che il dolore sia un fatto psichico, che non possa incidere su una prestazione. Cioè, stiamo parlando di uno ai limiti eh. È un borderline. È uno che chiama John Williams perché vuol diventare un direttore d’orchestra. È una figura avanzata di sportivo, uno che entra nell’NBA a 18 anni parlando 4 lingue, che legge; infatti i suoi compagni non riusciranno mai a relazionarsi con lui, se non in campo.

Tu che hai raccontato i più grandi, hai trovato una caratteristica che li accomuna?
L’ossessività. Quell’ossessività mostrata da Jordan e portata agli estremi da Kobe. Sinner è un ossessivo, Ronaldo, Djokovic. Solo Diego [Maradona] non aveva bisogno di essere ossessivo, era talento puro.

Anche tu, nei tuoi racconti, con i tuoi dati, gli aneddoti, le storie nelle storie, mi sembri piuttosto ossessivo. Una ossessività che mi pare sia il tuo modo per divulgare il grande amore che provi per queste storie sportive.
I non ho questa percezione di me, però la cosa che hai detto è molto centrata. Io ho l’enorme possibilità di scegliere le storie che devo raccontare ed essere retribuito per questo. Ho il devastante privilegio di poter raccontare delle storie che ascolterei.

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