Sotto un cielo che ribolle infiammato di giallo, arancione e rosso, una figura androgina si erge su un ponte. Indossa un sinuoso mantello blu e tiene due mani allungate su entrambi i lati della testa, senza capelli, simile a un teschio. Con gli occhi spalancati dallo shock, lancia un urlo che fa gelare il sangue. Questo, naturalmente, è L’urlo del pittore norvegese Edvard Munch, ma potrebbe essere anche il simbolo di Fuori dal coro, la trasmissione di Rete 4 che da due anni accoglie il pubblico facendo a meno delle parole. O meglio, trascurando di preoccuparsi troppo di parole che non siano parole d’ordine, stereotipi, locuzioni d’uso comune, e ricorrendo a un conduttore che ha fatto del suo asset più schernito – la voce – un’arma contundente contro il mondo.
“Dicono che urlo troppo. Ma anche se rimango zitto è la realtà che urla al mio posto”, spiega Mario Giordano, giornalista di 54 anni ma già da un quarto di secolo figura nota del piccolo schermo, dopo essersi fatto le ossa a Il Giornale come esperto economico. Ogni settimana ce n’è una: il presidente dell’Inps che si è triplicato lo stipendio “sulla pelle dei pensionati”, ad esempio. Qualche secondo di silenzio, con dei cartelli illustrativi mostrati al pubblico. Poi esplode il grido grottesco, un picco di decibel, stridulo, raccapricciante: “Triiidiiicooo”, che anticipa una filippica durissima contro Pasquale Tridico, suo malgrado balzato agli onori delle cronache per un maxi-aumento deciso molti mesi prima. Giordano apre così così puntata, di martedì, in preda alla collera religiosa. “Io non voglio festeggiare Halloween!”. E spacca una zucca simbolo della festa con una mazza da baseball. Ma da dove nasce questo urlare? A chi si rivolge? Possibile che si tratti soltanto di povertà culturale e di un vocabolario limitato dall’ignoranza?
Giordano “nasce” mediaticamente grazie a Gad Lerner – per le ironie della storia, oggi una delle sue nemesi politiche – che lo presenta al pubblico nel 1997 come professionista eccellente, duttile e modesto, ma soprattutto come un uomo di assoluta fiducia, elemento essenziale per il suo Pinocchio. Così cominciano gli interventi-tormentone del “grillo parlante” Giordano, che si sposta in bicicletta all’assalto delle magagne del paese, grandi e piccole, che non sembrano trovare mai soluzione. Dopo un paio d’anni di inquieto peregrinare che lo portano al Tg1 (sempre voluto fortissimamente da Lerner) poi ancora a Il Giornale, Giordano arriva ad appena 34 anni alla direzione di Studio Aperto, il telegiornale di Italia 1, che lui depura dalla politica e trasforma in un appuntamento morboso con la cronaca nera e il gossip di costume. Nel 2003 decide di partecipare alla sfida dei talk show politici, allora in pieno boom: parte L’Alieno, ancora su Mediaset, nel quale lui interpreta la figura del marziano che parla di questo sventurato paese umiliato da leggi assurde, dagli immigrati e dalle sinistre.
In alcuni casi la pratica consiglia di non contraddire: come quando ospite de L’Alieno ci va l’allora premier Berlusconi, che trasforma Giordano nel suo Marzullo, e lo costringe a sentire la favola delle tasse che stanno per diminuire, anzi che sono già diminuite ma presto spariranno, mentre i reati sono al 20% in meno e di posti lavoro creati col suo governo bis ce ne sono già 1,4 milioni in più: un vero miracolo economico. Se in quella trasmissione si intravede l’Italia berlusconiana, opulenta e gioiosa – incapace di notarlo, perché incatenata da magistrati e comunisti – 15 anni più tardi, in Fuori dal coro, non c’è nulla di tutto ciò: l’Italia è depressa, impoverita e sta per dare di matto.
I temi sono quelli di classici di un conservatorismo che vuole dare voce ai segmenti semplici, sobri e laboriosi. Milioni di persone che si capiscono tra loro, perché parlano la stessa lingua – quella del lavoro, dei confini duri e della famiglia solida – e dai tempi antichissimi ad oggi sono state osteggiate dai nullafacenti, dai deviati e dalle “zecche”. La redazione così partorisce i suoi titoli: “Virus, mancette e privilegi: soldi all’ente che nessuno riesce a chiudere”, oppure interviste come quelle a Giosuè, “uno dei tanti ragazzi che ha manifestato in piazza perché vuole tornare a scuola”. Poi c’è il ristoratore inguaiato dal lockdown: “come possiamo credere in questo Stato che ci sta ammazzando?”. Le voci dell’Italia che chiede di riaprire: “Così non ce la facciamo più”. E poi gli ospiti amici: “Vaccini: un affare dietro l’emergenza?”, si chiede Gianluigi Paragone, ex tribuno televisivo, di scuola giordaniana, che ora ha messo su una crociata fanciullesca contro l’Unione Europea pescando tra le idee di Lega e Movimento 5 Stelle, citando i soliti “conti che non tornano” e accuse rimasticate dalla Rete.
Nonostante questa Italia presenti lontane vestigia di normalità – l’esperto virologo che si mostra fiducioso nello staff ospedaliero, il genitore preoccupato ma ragionevole, l’imprenditore che ha trovato la formula per tirare avanti – tutto è soffuso da un senso di orrore primordiale, travolgente. Nel quadro di Mario Giordano lui si mostra come l’interlocutore che prendeva forma 2o anni fa: all’apparenza discreto ma incendiario, che blocca subito ogni rifugio nel politichese, ogni tentativo di ripararsi nella competenza, ogni escamotage oratorio per instillare idee complesse alla gente. È lui, soprattutto, ad accompagnare i fedeli in pirotecniche sedute di terapia: come quando apre la nuova stagione planando in studio, letteralmente, a bordo di uno di quei banchi con le rotelle voluti dal ministro dell’Istruzione: “Io non ho ancora capito a che cosa diavolo servono? A fare gli auto-scontri?”, chiede con il naso a pochi centimetri dalla telecamera. Un rituale sgradevole a vedersi per i progressisti, certo, ma rigenerante per l’Italia degli occhiali Ray-Ban specchiati e del colletto della Polo alzato: a loro Giordano spiega che perdere la testa e sfasciare tutto è giusto, anzi sacrosanto. Poiché in questo mondo globalizzato e in questa società aperta non hanno altra scelta, i bravi e operosi cittadini: rinchiusi in casa da un governo di inetti, che rappresenta una macedonia di parassiti, e costretti dal “politicamente corretto” a chiedere permesso prima di parlare.
È un non-linguaggio che del resto coincide con i meccanismi mentali di molta destra contemporanea, con il suo sentirsi perennemente sotto assedio. Anche quando tutto le va bene. Molti liberali e la gauche vivono come un’ingiustizia il fatto che i Democratici statunitensi abbiano vinto le elezioni con un largo margine eppure non controllino il Senato e la Corte suprema. O che i Tory inglesi mantengano un 40 per cento nei sondaggi nonostante la sottovalutazione del Covid. O che, per tornare all’Italia, nonostante le gaffe di Giorgia Meloni, la sua precaria conoscenza di storia e geografia, nonostante la goffaggine di un leader come Matteo Salvini i partiti della destra raccolgano, assommati, il consenso di circa un italiano su quattro.
Ma pensate come deve sentirsi il pubblico di Fuori dal coro, che indipendentemente dalle elezioni che vince e dal vento che butta a suo favore ha la percezione di non essere rappresentato – nei suoi valori culturali ed economici, nella letteratura che conta, nelle piattaforme hi-tech in crescita come Amazon o come Netflix, nei costumi dell’ultima generazione di giovani e forse presto neppure nel fortino della vecchia, cara televisione. Neppure i formidabili successi dell’ultimo lustro di rivolta sembrano, per loro, capaci di mutare il corso degli avvenimenti profani in questa fase dell’Occidente destinata al declino, e alla sottomissione. Che fare, dunque? Urlare, forse, come atto liberatorio più che aggressivo.
Mettersi nelle scarpe di chi si sente sotto assedio può essere un esperimento scomodo per chi ritiene sbagliate queste premesse, o imbarazzante: in fondo, i bianchi e i tradizionalisti sono ampiamente rappresentati, più di chiunque altro, soprattutto in Italia. Ma quello che sembra un capriccio è in realtà uno dei principali motori che guidano il pensiero reazionario di oggi. La cultura liberal dominante non ti rappresenta più, e allora investi tutto nella tua identità mitizzata, in conflitto e umiliata dalla prima. E così ottieni le urla di Giordano. Oppure Trump.
L’abbiamo capito, ormai: l’immobiliarista diventato capo della Casa Bianca è stato l’avatar ideale con cui esprimere quel terrore rimasto a lungo sotto traccia. Tucker Carlson, volto noto dell’emittente Fox, ha paragonato il suo sostegno a Trump al gesto di assumere una guardia del corpo, o un buttafuori: insomma qualcuno che non inviteresti a cena, diciamo così, ma che ti protegge dalle minacce vere o presunte: dai “rossi” che hanno in odio le partite Iva, dalle femministe con le loro insensatezze, dalla partitocrazia invasiva e ortopedica. Nell’Italia del Giordano esordiente era stato Berlusconi a ricoprire questo ruolo, con alterni risultati; adesso c’è Salvini, ma quando ci ha provato non è stato granché.
Lungi dall’essere una mera trovata scenica, le urla di Giordano segnalano l’impotenza dell’opposizione al progressismo, anche quando tutto le va dritto; indicano la l’indisponibilità, da parte della destra reazionaria, ad affrontare e vivere il mondo attuale nelle sue forme più parossistiche, e soprattutto a cedere interiormente a un multiculturalismo ferito ma vivo e vegeto, a un insistente ampliamento dei diritti civili e annacquamento delle tradizioni. Si ritorna al famigerato Kali-Yuga di cui parlava Julius Evola negli anni Trenta: lo scendere da una “età dell’essere” o “della verità” ad una età oscura, di nuove invasioni barbariche, di meticciato, di “immissione del virus del materialismo” tramite il quale “la casta prevalente sarà quella dei servi”, il solo legame tra i sessi sarà il piacere e “la sola via di successo nelle competizioni sarà la falsità”.
Farneticazioni, forse. Ma l’impressione è che abbiano una parte non trascurabile nel discorso incarnato dagli acuti di Giordano. Uno specchio degli orrori dell’esistenza, dove il telespettatore medio può fare a pezzi la politica, avendo già capito come stanno per andare le cose, cercando soltanto conferme dei suoi sospetti. La sconfitta di Trump, che ovviamente quest’area sociale voleva esorcizzare, a costo di associarsi alle accuse infondate degli Antonio Socci, delle Maria Giovanna Maglie e dei geopolitici improvvisati che hanno in odio il postmoderno, può non significare l’inizio della loro disintegrazione definitiva, ma certamente li spoglia di un potente fattore motivazionale. E altera anche l’atmosfera politica globale, che negli ultimi anni sembrava oscillare lentamente a loro favore, almeno fino all’insorgere del coronavirus.
Chi non urla è complice!#Fuoridalcoro torna martedì prossimo.
Buonanotte! pic.twitter.com/20KfAZmoep
— Fuori dal coro (@fuoridalcorotv) May 26, 2020
Le novità statunitensi, unite alla prova inconsistente dei nazionalisti italiani al governo, la giravolta dei pentastellati sembrano invero una catena di prove del fatto che la tanto discussa ondata populista degli ultimi anni potrebbe essersi attenuata, o persino conclusa. Il popolo di Fuori dal coro sente che il suo steccare potrebbe non condurre nella direzione sperata. Il loro conduttore lo sa, e non gli resta che rincarare la dose: “Ci vediamo settimana prossima, e ricordatevi… chi non urla è complice”.