Si entra in scena. Non ci possiamo credere. È successo davvero. Siamo al governo. Mentre ci apprestiamo a entrare in parlamento, ripassiamo mentalmente i passi salienti della nostra prima dichiarazione pubblica da forza di maggioranza. Davanti ai microfoni e ai taccuini, affermeremo con grande orgoglio “li abbiamo freg…” no, no, alt, forse così non va bene. Magari un “ci sono casc…”. Un attimo, un attimo, dalla regia ci consigliano che anche questo non sia un buon inizio. Facciamo mente locale. Sorriso di circostanza. “Siamo pronti a servire il paese forti dell’appoggio dei nostri elettori. Siamo disponibili ad ascoltare ogni proposta, ogni voce. A valutare ogni critica in maniera costruttiva. La nostra ricetta? Meno tasse. Meno sprechi. Vogliamo, e dobbiamo, far ripartire l’economia.” Tutti mi guardano. Ci saranno cascati?
Ch-ch-ch-ch-changes
Governo del cambiamento. Ecco come lo chiameremo. Un nome forte, evocativo, che colpisce. Ed è questo che vogliamo fare. Stupire, cogliere di sorpresa. A partire dalla nomina dell’esecutivo. Scegliamo persone di comprovata (in)esperienza, che (non) hanno specifiche conoscenze sulla materia che dovranno trattare. L’importante è che siano fedeli alla nostra linea programmatica. Linea che, a dire il vero, non è poi così chiara. Ma questo è un dettaglio da poco. Formato l’esecutivo creiamo un’agenda di lavoro che tocca diversi punti. Iniziamo il nostro mandato nominando una nuova ambasciatrice all’ONU. La nostra scelta ricade su Yara Mora, famosa patriota pronta a tutto pur di difendere i nostri interessi. Vogliamo subito mettere in chiaro le cose con l’Europa, e confermiamo la nostra indole sovranista applicando nuovi dazi doganali. La comunità internazionale non sembra apprezzare questo nuovo indirizzo politico, ma noi proseguiamo spediti per la nostra strada. Investiamo sulla sicurezza, con una serie di decisioni (possibilità di perquisizioni per strada, creazioni di quartieri ghetto, utilizzo del taser) che vengono duramente contestate dalle opposizioni. Al tempo stesso aumentiamo i controlli alle frontiere, rendendo meno semplice l’ingresso nel nostro paese. Alcuni ministri mostrano delle perplessità riguardo le nostre scelte. E noi rispondiamo a queste lamentele con una solo parola: rimpasto.
Taxman
Data una nuova struttura all’esecutivo, la prima metà del nostro mandato scorre senza particolari intoppi. La nostra strategia sembra funzionare, il consenso cresce e, giorno dopo giorno, ci confermiamo sempre di più la prima forza politica del paese. Una parte della popolazione contesta il nostro operato, ma la cosa non ci preoccupa. Proseguiamo in una direzione ben precisa, senza tenere in considerazione alcune avvisaglie economiche che provengono dall’estero. Non ci facciamo spaventare dai mercati. Anche se, forse, dovremmo. La bomba esplode in maniera fragorosa in una tiepida mattinata di metà aprile. Con una mossa (solo da noi) non prevista, gli istituti di credito internazionale declassano il rating sul debito. Si alzano i tassi di interesse, alcuni investitori ridimensionano il proprio coinvolgimento in progetti targati Italia. Altri scappano. Convochiamo il ministro delle finanze che, dopo aver effettuato un’attenta analisi dei conti, ci sussurra in un orecchio la soluzione a tutti i nostri problemi. “In qualche modo bisogna aumentare le entrate e diminuire le uscite.” Geniale. Ora dobbiamo solo metterla in atto. Far digerire alla gente nuove tasse è difficile. Lo è ancora di più se al tempo stesso, per risparmiare, riduciamo i servizi.
The end
Valutiamo diverse soluzioni, ma allo stato attuale non abbiamo margine di manovra. Proviamo a sbattere i pugni, tergiversiamo. Cerchiamo di mostrare una forza che in realtà non esiste. Alla fine siamo costretti a capitolare. Tassiamo tutto il tassabile. E forse anche qualcosa di più. Riduciamo tutti i servizi riducibili. E forse anche di più. La nostra percentuale di gradimento diminuisce, così come diminuisce anche il debito. I mesi si susseguono in un clima lugubre, austero, e quando arriviamo alle elezioni è difficile pensare a un risultato positivo. Seduti sulla poltrona del nostro ufficio, osserviamo scorrere sullo schermo davanti a noi una serie di percentuali. Il volto sorridente di un esponente di quella che fino a qualche ora fa era l’opposizione appare in video. Festeggia la vittoria. Siamo distratti, e percepiamo solo a spizzichi e bocconi le sue parole. “Hanno sempre parlato di governo del cambiamento, è vero. Ma a loro discolpa c’è da dire una cosa. Non hanno mai detto se il cambiamento sarebbe stato in meglio, o in peggio”. Cala il sipario. È finita.