Può sembrare folle, ed effettivamente lo è, ma uno dei modelli utilizzati da epidemiologi, esperti di terrorismo e sociologi per studiare il comportamento della società durante un’epidemia, o più in generale in una situazione di crisi, è basato su un bug di World of Warcraft verificatosi nel 2005. Detto in altri termini, la situazione che stiamo vivendo oggi ha numerosi punti di contatto con un’epidemia virtuale sfuggita al controllo degli sviluppatori all’interno di un videogioco di gruppo online quindici anni fa. Che epoca meravigliosa per essere vivi.
Cattivo sangue non mente
Anche in questo caso tutto è partito dagli animali, benché l’origine della diffusione del Corrupted Blood non sia esotica come le storie di mangiatori di topi vivi che abbiamo potuto ascoltare in questi giorni. Gli animali in questione sono tigri in armatura e altre bestiole da compagnia, pet per usare un termine tecnico, ovvero compagni muniti di pelliccia virtuale che il giocatore può evocare al suo fianco nel mondo di World of Warcraft. Un sopporto indispensabile durante gli scontri più duri, come quello contro Hakkar the Soulflayer, il boss finale di Zul’gurub. No, non si tratta di un antico termine aramaico, bensì di un raid, ovvero un’area di gioco introdotta come sfida per giocatori di alto livello nella patch 1.7.0 del settembre 2005. Un aggiornamento normale, come tanti, eppure destinato a segnare uno dei momenti storici di Wow. Hakkar è un osso duro per diversi motivi, ma il principale è un attacco, il Corrupted Blood appunto, che fa perdere al suo bersaglio grandi quantità di salute per 10 secondi e che può essere trasmesso ai compagni di squadra nelle vicinanze. Sconfiggere Hakkar richiede abbondanti dosi di coordinazione tra i membri del gruppo e di responsabilità individuale per auto-isolarsi se infetti. Incredibile a dirsi, ma nel contesto del raid funziona. L’infezione, per altro, termina all’istante qualora un giocatore esca dal raid per tornare nelle aree popolate. Peccato che per una dimenticanza questa precauzione non abbia riguardato anche i pet, per i quali il periodo di infezione poteva continuare anche all’esterno del raid se richiamati prima che l’attacco avesse finito il suo effetto. Sommando questa svista all’abitudine di sfoggiare i pet più rari in città, risulta facile capire come l’epidemia di Corrupted Blood si sia diffusa per l’intero mondo di World of Warcraft in poche ore.
Ricordati che devi morire!
Ciò che è interessante, tuttavia, non è tanto come Corrupted Blood si sia diffuso, quanto gli effetti che la sua diffusione ha avuto sugli umani davanti al monitor. Le conseguenze del contagio furono immediatamente chiare a tutti i giocatori. Trattandosi di un attacco pensato per mettere in difficoltà personaggi di alto livello, drenando loro molti punti salute al secondo, Corrupted Blood si rivelò letale all’istante sui giocatori di basso o medio livello. Con l’aggravante data dai NPC, ovvero i personaggi non giocanti controllati dalla CPU, portatori sani dell’infezione, in breve le principali città di Wow si riempirono di cadaveri. Benché la morte del proprio personaggio non fosse un evento irreversibile, le difficoltà connesse alla diffusione incontrastata del Corrupted Blood suscitarono subito parecchie lamentele. La gestione della crisi da parte di Blizzard, chiaramente impreparata a ciò che stava succedendo, ricorda molto quella attuale dei nostri governi. Dopo una serie di dichiarazioni contradditorie, il consiglio fu quello di auto-imporsi una quarantena, rispettata per altro solo da un piccola percentuale di giocatori. Mentre alcuni scelsero di rifugiarsi temporaneamente nelle località più remote e spopolate, guardandosi bene dall’entrare in contatto con gruppi di giocatori più numerosi, altri decisero di giocare un ruolo in questa strana partita. Alcuni organizzarono delle specie di ronde per avvisare i giocatori più incauti, i guaritori si misero al servizio degli infetti mentre sparute bande di giocatori di alto livello si organizzarono per diffondere il morbo. Frotte di curiosi, infine, vagarono per giorni ai confini delle zone più colpite, osservando da lontano e fuggendo prima di essere toccati. Alcuni, più semplicemente, smisero di giocare.
Dal Corrupted Blood al Coronavirus
All’apice del contagio i giocatori colpiti da Corrupted Blood furono più di un milione. Una situazione così estrema e ormai irreversibile da convincere Blizzard a resettare i server e sistemare via patch i danni occorsi nel frattempo. Una semplice svista si era presto trasformata in un problema così grave da richiedere una soluzione drastica per essere risolta. Le lezioni che si possono imparare dalla situazione appena descritta, tuttavia, non riguardano solo il mondo dei videogiochi, ma anche – o forse soprattutto – quello reale. Al di là delle evidenti differenze, in particolare per quanto riguarda il concetto di morte, la situazione generata dal Corrupted Blood è assimilabile a quella vissuta qualche anno fa ai tempi della SARS o a quella che viviamo oggi nei giorni del Coronavirus. C’è il contagio animale, i portatori asintomatici, i comportamenti consigliati e disattesi, i provvedimenti poco tempestivi delle autorità, ma più di ogni altra cosa è interessante esaminare il lato umano. E non perché lo sostenga io, un cialtrone come voi che leggete, ma perché anni dopo il fenomeno del Corrupted Blood è diventato un caso di studio per alcuni emeriti epidemiologi (Ran Balicer, Eric Lofgren, e Nina Fefferman tra gli altri) proprio per il valore del dato relativo al comportamento umano, pur sempre imprevedibile, ma concreto e misurabile in questa situazione specifica grazie ai dati forniti da Blizzard, a differenza dei modelli matematici classici basati solo sulla teoria. Insomma, se oggi gli scienziati sono in grado di capire e prevedere un po’ meglio cosa succede durante la diffusione di un’epidemia, il merito è anche di un bug di World of Warcraf del 2005. Ora: alle misure drastiche ci siamo già arrivati, in alcuni casi, e altrove sono imminenti. Resta solo da capire quale sarà il reset del sistema che metteremo in atto per uscire dalla più grande crisi mai vissuta dalla mia generazione e da quella precedente.