La prima volta che sono morto, è stata tutta colpa di una liana. O era un coccodrillo? A ogni modo, è stato tanto tempo fa. Nella camera dei miei genitori c’era un comò, e già questo dovrebbe darvi l’idea di quanto tempo sia passato. Sopra il comò c’era un Atari 2600 e dentro l’Atari 2600 una cartuccia con la scritta Jungle Hunt impressa su una banda rossa, sopra al disegno colorato di un buffo esploratore. Una volta avviato il gioco, tuttavia, di cose buffe ne capitavano ben poche.
Il prezzo della morte
Ripensandoci ora, considerando la mia età all’epoca e la fortuna di non aver vissuto lutti durante l’infanzia, quello deve essere stato il mio primo contatto con la morte. E sempre ragionando col senno di poi, non mi deve essere sembrato un concetto così definitivo e tragico, considerando che lo stilizzato esploratore, vaga riproduzione di quel buffo signore in copertina, tutto sommato poteva tornare nel giro di qualche secondo a giocare nuovamente a dadi col la sorte, danzano da una liana all’altra sopra un letto di coccodrilli. Fuori di casa invece, il problema della morte mi sembrava molto più sentito. Il mio Haggar, nonostante il petto largo come una portaerei e l’espressione truce, appariva molto più cagionevole di salute rispetto a quell’ometto in braghe corte. Probabilmente perché per ogni morte in Final Fight mi toccava elaborare una nuova strategia per convincere il mio accompagnatore a estrarre un’altra moneta da 500 lire dalla tasca, prima che quel maledetto countdown mettesse per sempre KO il mio personaggio.
La morte come antidoto alla noia
Secondo gli accademici, la morte nel videogioco non è null’altro che un tentativo piuttosto pigro per raffigurare l’idea del fallimento nella competizione. Sarà, ma il risultato sembra piuttosto efficace. D’altra parte, bisogna ammettere che la morte è davvero un elemento la cui presenza all’interno del gioco svolge una funzione, diversa caso per caso, ma comunque insostituibile. Se in Final Fight, così come in qualunque altro coin-op, la morte del nostro personaggio è un’evenienza che pare giungere inevitabile ogni cinque minuti, il motivo è da collegarsi alla volontà di svuotare le nostre tasche di tutte le preziose monetine che contengono. Nel contesto casalingo invece, la morte svolge un ruolo molto più delicato, ovvero quello della grande livella tra difficoltà e soddisfazione. Trovare l’equilibrio giusto è complicato, anche perché non esiste una formula universale e le tendenze del momento sono parte dell’equazione. Per esempio, non è un caso se di recente sono tornati di moda souls like, rogue like e permadeath dopo anni in cui il paradigma è stato rappresentato da giochi – o esperienze? – alla Uncharted, dove bastava tenere la levetta inclinata in avanti per arrivare ai titoli di coda. E no, le morti sadiche e softcore di Lara negli ultimi Tomb Raider non rappresentano la quadratura del cerchio, anzi.
Se la morte è divertimento
Non mancano le eccezioni, come ovvio. A partire da Mortal Kombat, che ha fatto della morte e della sua spettacolarizzazione la colonna su cui poggiare il franchise. Una scelta pienamente figlia degli anni in cui è maturata, i ’90 in cui tutto doveva essere violento per essere figo, ma che gli ha anche consentito di giungere ai giorni nostri in condizioni di salute ben più floride rispetto a quello Street Fighter da cui voleva prendere le distanze. Benché, va detto, ormai le fatality siano ridotte all’esagerazione di una gimmick che ha perso ogni carica provocatoria o anti-conformista anni fa. Non sorprende invece che le sperimentazioni più interessanti sul tema della morte arrivino dal sottobosco indie. Due in particolare, di recente, hanno provato a esplorare nuove possibilità.
Uno è Minit, avventura minimale alla Zelda, in cui il protagonista muore inesorabilmente ogni sessanta secondi e tutte le conquiste devo essere costruite di conseguenza un minuto alla volta. L’altro è The Sword of Ditto, che sostituisce l’eroe con un nuovo prescelto dopo ogni dipartita, mostrando sul mondo di gioco le conseguenze del fallimento. Allargando ulteriormente lo sguardo, quel che manca sempre più spesso invece è la capacità, o forse la volontà, di riconoscere il valore della morte inflitta dal giocatore. Perché se da un lato è scontato che nei panni di un soldato durante Seconda Guerra Mondiale io sia costretto a farmi largo a suon di proiettili, non trovo altrettanto scontato che il medesimo approccio sia riservato alla figura di una giovane archeologa o di un hacker anti-sistema. Sono solo due dei tanti esempi possibili, ma descrivono con precisione una pigrizia in termini di design e scelte narrative che tuttavia di rado, per non dire mai, trova spazio in fase di valutazione. Chi l’ha detto, insomma, che tutte le morti hanno lo stesso valore?