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Gaming girls: le ragazze della sala giochi

Il futuro dei videogame è in mano alle donne. Sono giovani e piene di idee. E vogliono soltanto una cosa: essere libere di creare

Alcune delle protagoniste della European Women in Games Conference. Foto: Carlotta Cardana

Alcune delle protagoniste della European Women in Games Conference. Foto: Carlotta Cardana

L’industria dei videogame ha un grosso problema: le ragazze. Quelle ragazze, che da sempre giocano ai videogame – e spesso li creano –, oggi stanno diventando troppo numerose per essere ignorate. Il pubblico reale, infatti, è molto diverso da quello che hanno in mente i manager del settore, o i media tradizionali. Gran parte dello sviluppo dei giochi e dei personaggi si basa su presupposti che un recente sondaggio (Wiseman/Burch, presentato al Games Developers Conference 2015) ha mostrato essere infondati: che alle ragazze non piacciono i giochi d’azione; che i ragazzi non vogliono titoli con protagoniste forti, e vedono con favore la mercificazione del corpo femminile nei videogame. Tutto sbagliato. Dietro il cliché degli adolescenti brufolosi che giocano online a interminabili sfide militaristiche (per poi, secondo la vulgata, portare a vita il marchio di un’irreprimibile tendenza alla violenza) c’è quindi molto di più: un’intera generazione in cerca di eroine in cui identificarsi e che, per farlo, è pronta a mettere mano al portafogli. Se l’industria non prende subito provvedimenti, quindi, nei prossimi anni potrebbe lasciare sul tavolo un sacco di soldi. Sta già succedendo.

Agli inizi di settembre si è tenuta a Londra la quinta edizione dell’European Women in Games Conference, evento annuale che si svolge alla University of Westminster. In un mondo ideale, di una conferenza internazionale per promuovere il ruolo delle donne nell’industria dei videogame non ci dovrebbe essere bisogno – come in qualsiasi industria, del resto. Ma: 1) il mondo è quello che è, ben lontano dall’essere ideale; 2) nel corso dell’ultimo anno c’è stato un caso molto brutto chiamato #Gamergate, in cui giovani gamer arrabbiati (probabile età media: 12 anni) sono arrivati persino a minacciare di morte alcune sviluppatrici che avevano sollevato la questione della mancanza di diversità all’interno del settore; 3) l’industria dei videogame è davvero recente – possiamo far risalire la sua nascita al 1980, anno in cui Space Invaders è entrato nelle case con la versione per Atari 2600. Nel corso di 35 anni, questa industria si è espansa esponenzialmente, ma senza avere il tempo di risolvere le tante contraddizioni al suo interno. La prima, e più evidente, è che anche le ragazze giocano ai videogame, ma nessuno lo tiene in considerazione.

La rappresentazione del corpo femminile è sembrata essere quasi sempre limitata a poco più che una “delizia per gli occhi”

 

Scopo di un evento come la conferenza Women in Games, quindi, è riunire i tanti talenti femminili che stanno contribuendo a trasformare questa industria in un business che in Gran Bretagna, per esempio, è già più importante del cinema. E coltivare e supportare le nuove generazioni di programmatrici, per far sì che sempre più donne decidano di lavorare con i videogame. Noi le abbiamo incontrate, e abbiamo capito una cosa su tutte: nei prossimi anni assisteremo a una rivoluzione, che porterà questo medium alla piena maturità e forse lo trasformerà definitivamente nella forma narrativa più importante del nostro tempo. La base dei gamer, tanto per cominciare, è molto più progressista di quanto si pensi. Sempre secondo il sondaggio di Wiseman e Burch, mentre il 60% di un campione di ragazze delle scuole superiori americane preferisce giocare con un personaggio femminile, solo il 39% dei ragazzi sente il bisogno di controllare un personaggio del proprio sesso. Secondo Hazel McKendrick – programmatrice a Hello Games, piccolo studio indipendente britannico che sta sviluppando uno dei titoli più attesi del momento, No Man’s Sky – è comprensibile: «Da una prospettiva di business, rivolgersi a una sola classe demografica non ha senso, e finalmente i grandi sviluppatori e gli editori lo stanno capendo. I videogame significano anche evasione, ma per una ragazza è più difficile farlo, se la sua unica scelta è controllare un maschio bianco, etero e palestrato. Titoli come Dragon Age: Inquisition permettono non soltanto di scegliere il genere del proprio eroe, ma anche di avere personaggi secondari di diverse etnie e sessualità». (Per la cronaca, in questo videogame fantasy c’è anche un personaggio transgender).

Nella storia dei videogame, la rappresentazione del corpo femminile è sembrata essere quasi sempre limitata a poco più che una “delizia per gli occhi” riservata al gamer maschio. Un caso emblematico è quello di Lara Croft, protagonista della storica e longeva serie di Tomb Raider – il primo capitolo risale al 1996, seguito da un’altra dozzina di titoli, tra sequel e versioni mobile (oltre a due film con Angelina Jolie). Brianna Wu, capo dello sviluppo a Giant Spacekat – studio indipendente di Boston che ha prodotto un titolo, Revolution 60, con protagoniste quattro spie donne al lavoro su una stazione spaziale – e uno dei principali bersagli del caso Gamergate, descrive così l’evoluzione di questo personaggio (per Brianna è ancora difficile partecipare a incontri pubblici, a causa delle minacce ricevute; noi l’abbiamo raggiunta via mail): «Lara esordisce negli anni ’90 come un personaggio ipersessualizzato i cui seni sono grossi quanto la sua testa. Ma nel 2013 la serie riparte con una nuova versione, la cui scrittura è affidata a Rhianna Pratchett (figlia dello scrittore inglese Terry Pratchett, e autrice di numerosi videogame, tra cui il premiato “Mirror’s Edge”, ndr) e la protagonista mostra un cambiamento radicale: non è più un sex symbol, ma una persona. Quando è costretta a uccidere, la sua voce trema; e quando i suoi amici muoiono, è possibile avvertire il suo dolore. È diventata uno dei personaggi più potenti e maturi della storia dei videogame, pur rimanendo una donna molto bella. Questo insegna che, se si vogliono creare personaggi femminili credibili, bisogna assumere autrici donne».

Il cambiamento è già in atto, dunque, ma è ancora un processo molto lento. Catherine Goode, creative director a Triangular Pixels – attualmente al lavoro su un gioco a realtà virtuale dal titolo Smash Hit Plunder – crede che, nonostante negli ultimi tempi le giovani programmatrici abbiano iniziato a farsi sentire, il problema riguardi più che altro i vertici dell’industria: «Le donne sono ancora lontane dal raggiungere posizioni chiave all’interno delle grandi aziende. Io ho lavorato per alcuni dei maggiori sviluppatori britannici, e non mi è mai capitato di trovare una donna in una posizione di comando. Anche le programmatrici di livello alto sono rarissime». Per Anisa Sanusi, user interface designer a Frontier Developments – in passato ha lavorato a Elite: Dangerous, e oggi è al lavoro su un titolo in uscita nel 2016, Planet Coaster – «Stiamo andando nella direzione giusta. Le donne oggi subiscono meno discriminazioni del passato, e questo dovrebbe invogliare le giovani programmatrici a unirsi a questo settore. Siamo ancora lontani, ma in futuro raggiungeremo un reale equilibro di genere. Ogni anno vedo sempre più programmatrici donne, e i trailer dell’ultimo E3 (il più importante evento mondiale sui videogame, che si tiene ogni anno a Los Angeles, ndr) hanno mostrato un sacco di nuovi giochi con protagoniste femminili. Se si tiene presente che i titoli maggiori hanno tempi di lavorazione di alcuni anni, questo significa che la vecchia idea secondo cui “i giochi con eroine sulla confezione non vendono” ha già iniziato a cambiare».

Sono soprattutto giochi carichi di violenza (ma anche di ironia) come la serie di Grand Theft Auto a ispirare allarmisti e approssimativi titoli di giornale, ma la realtà è che l’offerta di videogame sta diventando sempre più differenziata, e oggi dichiararsi un gamer è un’affermazione meno impegnativa di quanto fosse un tempo: chiunque possieda uno smartphone lo è, almeno in potenza. Il giorno in cui i videogame diventeranno davvero una faccenda unisex, saranno soprattutto i maschietti a guadagnarne, e un primo, banale motivo è questo: nei dolorosi anni dell’adolescenza, quando il contatto con l’universo femminile appare come un miraggio difficile, a volte impossibile da raggiungere, avere una scusa in più per fare cose insieme alle ragazze è soltanto un vantaggio. Ma non bisogna sottovalutare nemmeno il misto di pudore e trasgressione con cui alcuni uomini adulti acquistano una console, confidando nella comprensione (o nella sopportazione) della propria partner, e poi si trovano a giocare in silenzio nel cuore della notte, per non alterare i delicati equilibri della convivenza (nessun riferimento autobiografico, qui). Di fianco a una minoranza estremista come quella che ha causato il Gamergate, ostile ad allargare qualcosa su cui crede di possedere l’esclusiva – e che, come tutti i gruppi estremisti, è spesso più efficace nel far sentire la propria voce, mettendo in ombra la maggioranza moderata – c’è una base di giocatori che desidera soltanto questo: avere la possibilità e la libertà di condividere una cosa bella, con il maggior numero di persone possibili.

Questo articolo è pubblicato su Rolling Stone di ottobre.
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