Quando lo incontro, Jesse è giovane, magro, ha lo sguardo un po’ stranito e stanco tipico di chi si trova in mezzo a una folla senza quasi saperne il perché. E il perché è lui. Può apparire distratto, ma in realtà è il suo modo di fare: si guarda spesso intorno e sembra registrare tutto ciò che accade intorno a lui. Non è la sua prima volta in Italia. I suoi fumetti (Crawl Space, E così conoscerai l’universo e gli dei, Safari Honeymoon) sono pubblicati dalle nostre parti da Eris Edizioni ormai da alcuni anni. Nel frattempo però Jesse ha sviluppato anche un videogioco, Spinch, insieme a Queen Bee Games, canadesi come lui. Quando ci sediamo davanti a una birra e gli dico che ho intenzione di intervistarlo in merito al suo lavoro da game designer appare sorpreso, poi alza le sopracciglia e annuisce divertito.
L’influenza dei videogiochi nelle tue opere è evidente da sempre, credo si possano trovare diversi riferimenti all’estetica del periodo d’oro dei videogiochi in 2D.
Sì, di sicuro, nel mio lavoro finiscono dentro anche i vecchi videogiochi. Quell’immaginario ormai si è depositato nel mio cervello così a fondo che il mio giocare a Super Mario 2 è stato un po’ come prendere acidi prima di prenderli per davvero, era un gioco davvero lisergico. È dura dire da quale gioco specifico io abbia attinto, il cervello umano funziona per accumulazione e poi partorisce idee che non sai da dove vengano, lo capisci solo a distanza di tempo.
Qual è il punto di contatto tra le tue opere a fumetti e il tuo lavoro nei videogiochi? Se ce n’è uno, ovviamente.
Sì, ci deve essere, sono sempre io, no?! E poi i miei videogiochi assomigliano molto ai miei fumetti, uno in fondo funziona sempre allo stesso modo. Puoi usare colori diversi e tratti differenti, ma lo stile di fondo con cui lavori è quello. È il solo modo in cui so farlo. In effetti questo rapporto tra fumetti e videogiochi è interessante, perché sono così diversi. Voglio dire, condividono qualcosa, il modo in cui mi esprimo dal punto di vista estetico, ma oltre a questo è dura trovare un contatto perché i videogiochi sono un lavoro che si fa in team, i fumetti da solo. Anzi, nel lavoro sui videogiochi emergono frizioni che nei fumetti non ci sono perché, hey, sono da solo a farli e i miei editori non si sono mai intromessi. Credo io debba ancora digerire il processo che ha portato a Spinch e le differenze rispetto al fare fumetti.
Come sei finito a fare videogiochi?
Avevo degli amici, tipo una ex ragazza e dei suoi amici, che hanno una società di sviluppo di videogiochi (Queen Bee Games, NdR) e mi hanno contattato perché avevano visto i miei lavori e volevano lavorare con me. Il Canada provvede a fornire un sacco di supporto alle videogame company, così abbiamo fatto richiesta, abbiamo ottenuto dei fondi che sarebbero bastati per un paio d’anni e di colpo tutti i pezzi sono andati al loro posto.
Qual era il tuo ruolo nello sviluppo di Spinch?
Io ho realizzato tutta la parte grafica, le animazioni e il level design. Al di là della programmazione, ho fatto tutto. Collaboravo con uno sviluppatore che mi ha lasciato campo libero perché a lui, insomma, interessava programmare. È stato tosto all’inizio, perché abbiamo dovuto trovare un modo per comunicare, parlavamo lingue differenti. Possiamo fare questo? No. Possiamo fare quest’altro? No. Ma attraverso il dialogo siamo riusciti a trovare un metodo che andasse bene a entrambi.
Immaginavi come fosse fare videogiochi prima di finirci dentro?
No, no, mi sembrava una cosa tipo magia. E ancora non lo so! Vedo le linee di codice, ma non so bene come funzioni. No, davvero, non lo so. Proponevo di fare qualcosa e mi dicevano: non possiamo farlo!
Immagino tu chiedessi “Perché non si può fare?!”.
[Ci pensa un po’] Beh, sì, vedi, il programmatore con cui lavoravo era… uhm… un programmatore. Parlava una lingua diversa dalla mia. Allora ho provato a osservare idee che avevano funzionato in passato e proponevo di riprenderle e modificarle un pochino, partendo da lì.
Ti sei divertito a fare videogiochi?
Sì e no. Come per i fumetti, ci sono aspetti che mi piacciono e altri che non mi vanno a genio.
Pensi che è una cosa che rifarai ancora, ancora e ancora?
Sì, mi ci vedo.
Hai mai pensato di farlo più in grande, non so, magari entrando a lavorare in qualche software house più grande?
Non so, quella parte non mi interessa poi tanto. Lavorare con un gruppo ristretto era la dimensione giusta, mi piace essere in controllo delle cose. Non posso ancora dire nulla di ufficiale, perché uscirà l’anno prossimo, ma abbiamo una partnership in ballo per il nuovo gioco. Vedremo.
Che tipo di videogiocatore sei?
Mi piacciono i vecchi giochi, ho un’età [ride]. Gioco anche i giochi moderni, ovvio, soprattutto ora che ci lavoro, ma mi piacciono quelli più semplici. Mi è piaciuto Thomas was alone, credo fosse un ottimo titolo. Lo conosci? Ti piace?
Sì, più in generale credo che nella recente ondata indie ci siano parecchi prodotti interessanti, con qualcosa da dire.
Sì, anche se per quanto mi riguarda se ho qualcosa da dire scrivo un fumetto. I giochi migliori credo siano quelli che trasmettono invece una vibrazione, magari dentro un contesto narrativo, ma ti immergono nel mood. Quello mi piace un sacco.
C’è uno dei tuoi libri che credi potrebbe diventare un buon videogioco?
Uhm, se dovessi scegliere, direi probabilmente Safari Honeymoon . Non che io voglia farlo, eh! Ma se qualcuno dovesse propormelo…
…se ti offrisse un sacco di soldi, insomma!
Sì, ecco, esatto, ci si potrebbe pensare.