Immaginate un gioco che ha luogo nell’immaginazione dei giocatori, che possono prendere qualsiasi scelta vogliano, purché seguano delle regole scritte – stampate su dei libri chiamati Manuali e da imparare per bene. I protagonisti di questo gioco sono esseri incredibili – guerrieri, maghi, elfi e nani –, ogni partita è amministrata da un giocatore chiamato Master, figura a metà tra l’arbitro e il dio. Oh, e alla fine, nessuno vince.
Sono alcune delle caratteristiche che rendono Dungeons & Dragons un prodotto unico, un ibrido che ha superato i rigidi settori ludici per creare un’entità a parte, ora diventata un settore miliardario: il gioco di ruolo. Dalla primissima edizione del 1974 ad oggi, D&D è cambiato moltissimo, sopravvivendo a una crisi profondissima e arrivando a godersi un momento di gloria: è al centro del vortice nostalgico di Stranger Things, il New Yorker ne ha recentemente celebrato la “resurrezione” e circa cento hanno preso parte all’Epic di sabato 4 novembre al Lucca Comics and Games.
L’Epic è una versione esagerata di una “normale” quest di D&D. Invece di quattro o cinque persone (più master) a un tavolo, ci sono 120 persone divise in più tavoli, ciascuno dei quali ha un suo master, che fa a sua volta capo a un “master dei master”. Tutte queste persone, assieme, vivono la stessa storia che però viene spezzettata in tante parti. Organizzata da Lucca Games, l’Epic di quest’anno è stato un successo con le iscrizioni terminate in poche ore, richiamando ragazzi da tutta Italia. A rendere possibile il tutto è stata la quinta edizione del gioco, uscita negli USA nel 2014 e arrivata questo mese in Italia (nella prima edizione non inglese del mondo) e subito finita sold out durante il Lucca Comics and Games.
«È stato un ritorno devastante», mi spiega Nicola DeGobbis, fondatore di Need Games, casa editrice e organizzatrice d’eventi ruolistici, chiamato dagli organizzatori a Lucca per fare da Master all’evento. «Conta che mercoledì in fiera sono arrivate quattrocento copie (del manuale base, nda) e giovedì erano già finite. Il gioco è tornato in auge: i negozi lo vogliono, si gioca tantissimo».
I produttori si spinsero troppo nello sfruttamento del brand, spingendo il pubblico a comprare mappe, miniature e oggettistica
A rendere l’attesa di questa quinta edizione così spasmodica è stato soprattutto il fallimento della versione precedente, la famigerata Quarta edizione del 2007. Massimo Bianchini è uno dei due country manager per l’Italia di Asmodee (con Luca Cattini), gigante multinazionale del settore ludico; da circa vent’anni, dai tempi di AD&D insomma, segue l’evoluzione del gioco. Ai margini dell’enorme stand dedicato ai giochi in scatola dal festival di Lucca, racconta a Rolling Stone la crisi attraversata da Dungeons & Dragons: «La Quarta edizione ha rischiato di affossare il marchio D&D, con quel regolamento che costringeva i giocatori a usare le miniature», ovvero le statuette da muovere su una mappa. «I produttori si spinsero troppo nello sfruttamento del brand, spingendo il pubblico a comprare mappe, miniature e oggettistica». Come? Rendendole necessarie al gioco, in una forma di ricatto commerciale e rovinando quel senso d’apertura ed esercizio mentale che rende ogni quest unica.
Con la Quinta edizione «siamo tornati al vero D&D con un regolamento finalmente snello e semplice», conclude Cattini. Il gioco rimane ancora profondo e studiato al dettaglio – chi vuole può comprarsi manuali di tutti i tipi – ma al neofita è concesso di giocare sapendo pochissime regole. In base alla mia esperienza personale farsi un personaggio con questa edizione (ovvero scegliere che tipo di razza, classi ecc. avere) è molto semplice. D&D, insomma, sembra essere pronto ad aprirsi al mondo, anche grazie alla spinta di show di successo come Stranger Things.
«È diventato un fenomeno di massa, finalmente», spiega DeGobbis. «Adesso essere un giocatore di ruolo è cosa figa adesso ed è questo che dobbiamo comunicare». Eventi come l’Epic (o l’Adventures League, sparsa ormai in molte zone d’Italia) consentono di uscire da quella che Vanni Santoni ha chiamato “la stanza profonda”, conoscere altre persone e ampliare i propri orizzonti. Oltre che, ovviamente, livellare.