Anche prima di Fortnite, Tim Sweeney non aveva bisogno di presentazioni nel mondo dei videogiochi. È indubbio però che il successo stratosferico di quello che è oggi il battle royale più giocato del pianeta abbia completamente stravolto il destino di Epic Games. La compagnia, da lui fondata nei primi anni ’90 insieme al collega Mark Rein, è infatti passata in una manciata di anni dall’essere una software house di spicco, ma pur sempre dipendente dal sostegno economico dei publisher, a una realtà autonoma in grado di orientare le scelte del mercato e persino di turbarne gli equilibri. Se avete dubbi, chiedetelo a Valve.
È abbastanza ovvio quindi che Sweeney – il cui patrimonio oggi si conta in miliardi di dollari – abbia una o due cose da dire ai suoi colleghi dell’industria, e che questi non si facciano problemi a starlo a sentire.
E così ha fatto, dall’alto del palco dell’ultimo DICE Summit che si è tenuto a Las Vegas questa settimana, con un intervento che non ha risparmiato quasi nessuno.
Basta con quelli che usano le loot-box, per esempio, e tutti i modelli di business predatori nei confronti dei consumatori. «Cosa vogliamo essere da grandi?», ha domandato Sweeney alla sua platea. «Vogliamo che il mondo ci veda come Las Vegas o come dei creatori di prodotti di intrattenimento altamente rispettabili e di cui i consumatori si fidano?». E sempre parlando di rispettabilità e rispetto, se l’è presa anche con quelle compagnie che vogliono trascinare la politica o alcune questioni divisive di carattere sociale all’interno dei videogiochi. Considerazione, questa, che non a tutti è andata particolarmente a genio, e sulla quale si è sentito di ritornare in seguito su Twitter aggiungendo: «Se un gioco tocca temi politici, così come “Il buio oltre la siepe” lo ha fatto in forma di romanzo, l’idea deve provenire dalla mente dei creatori, non dai reparti di marketing che tentano di speculare sulle divisioni. Una compagnia che opera all’interno di un ecosistema in cui gli utenti e i creatori possono esprimersi dovrebbe comportarsi da moderatore neutrale. Altrimenti il rischio di esercitare un’influenza eccessiva dall’interno o dall’esterno è davvero troppo alto».
Non le ha neanche mandate a dire ai gestori delle piattaforme (che si tratti di console, PC o mobile), colpevoli di ritenere che gli utenti siano «una loro proprietà». Oltre a rinnovare la critica alla famosa fetta del 30% dei guadagni che i proprietari degli store digitali pretendono dai creatori di contenuti (contrariamente a Epic Games Store, che agli sviluppatori chiede solo il 12%), Sweeney è tornato ad attaccare Google e quella che ha definito la sua «finta politica di apertura». La battaglia per portare Fortnite su Android senza passare per il Play Store va infatti avanti da molto tempo, e in quest’ottica il rampante imprenditore ha parlato della necessità di allentare il controllo sulle piattaforme, di abbattere le barriere e di permettere agli utenti di accedere sempre e ovunque ai propri titoli, indipendentemente dal dispositivo utilizzato. Difficile dargli torto ma, date le circostanze, ci sembra comunque che il suo cuore batta un po’ troppo vicino a dove tiene il portafogli.
Anche se in generale ci piace la visione di un futuro dove il cross-play e il cross-platform non siano più delle opzioni ma lo standard del mercato, la schiettezza di Sweeney suona di nuovo fasulla quando punta il dito contro le compagnie rivali, che con le loro pratiche ostacolano «l’interoperabilità tra le piattaforme» e si «appropriano indebitamente dei dati degli utenti». Proprio lui, che ha lanciato il suo store per PC a colpi di accordi di esclusiva con gli sviluppatori, finendo anche al centro delle polemiche per la scarsa trasparenza delle politiche sulla privacy adottate dall’azienda.
Vale sempre l’antico adagio: chi è senza peccato, scagli la prima pietra.