Com’è possibile che il pronipote di Alessandro Manzoni e il cugino di Piero Manzoni (quello della “Merda d’artista”, per intenderci) sia stato per 25 anni un agente sotto copertura dei Servizi segreti, fino ad arrivare a uccidere, è difficile da spiegare. Ci ha provato Pier Paolo Giannubilo a raccontare la sua vita estrema nel libro candidato nel 2019 al premio Strega, Il risolutore (Rizzoli), ma per stessa ammissione dell’autore ha dovuto eliminare parecchio materiale per non farlo diventare un “mattone” di oltre mille pagine. Noi Gian Ruggero Manzoni lo abbiamo incontrato a Libropolis, il festival dell’editoria e del giornalismo di Pietrasanta, provando a spremere quel che era possibile all’interno di una intervista incentrata su un’esistenza trascorsa, per larga parte, in una “schizofrenia auto-imposta» che lo ha portato dalla militanza nel Movimento del 77 bolognese – al fianco di Pier Vittorio Tondelli e Andrea Pazienza – e dal clima libertino del Dams al reclutamento nei Servizi, dalle missioni in Libano e nei Balcani a caccia di obiettivi da abbattere all’attività di insegnate di Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Urbino, il tutto arricchito da decine di libri, di poesia e narrativa, oltre a riuscire a cavalcare da protagonista le avanguardie pittoriche degli anni ‘80.
Ma nell’approfondire la genealogia dei Manzoni, passo dopo passo, appare sempre meno strana la parabola del conte Gian Ruggero. Sì, anche di sangue blu, da quando gli Estensi premiarono la famiglia dopo che un antenato nel ‘500 strangolò su loro commissione il cardinale Bentivoglio. Nobili d’arte e di spada, c’è poco da fare. Nel contempo ci ha messo del suo per arricchire una biografia che «pare uscita da un album della Marvel» confessò Giannubilo: politicamente si definisce “fascio-comunista”, consiglia al Pd «di votare segretario Papa Francesco», considera la scena intellettuale odierna «in mano a molte puttane» e sul conflitto in Ucraina è «sconcertante come siano tutti lobotomizzati» per l’indifferenza da cui si sente circondato. Arrivato a 65 anni – e nonostante abbia pensato più volte di «spararsi in testa» – è l’amore per la figlia che lo fa andare avanti e, senza rimorsi, prima della fine terrena chiede soltanto di «spogliarmi di tutto quello che ho vissuto e riassaporare le emozioni legate all’infanzia» affidandosi, un po’ come ne I promessi sposi, «alla divina provvidenza e alla misericordia».
Oggi Gian Ruggero Manzoni si sente un sopravvissuto?
Sicuramente c’è un discorso di sopravvivenza nella mia esistenza, ma non per quello che ho fatto nei 25 anni a disposizione dei Servizi segreti. Sono un sopravvissuto degli anni ‘70. È in quel periodo che è iniziato il mio percorso che poi ha influenzato tutta la mia vita. Non a caso più della metà dei miei amici sono morti di eroina o di Hiv, come Pier Vittorio Tondelli, Andrea Pazienza e più recentemente Freak Antoni. Quindi sì, sento la condizione della sopravvivenza rispetto a una generazione che ha chiuso il Secolo breve, il ‘900.
Quando parla di anni ‘70 si riferisce in particolare al Movimento del 77 bolognese, al quale ha aderito. Che anni erano quelli?
Rispetto a oggi c’era più entusiasmo, anche a livello artistico. È proseguito fino agli anni ‘80 poi tutto è cambiato, un po’ a causa della tv spazzatura e un po’ per l’analfabetismo di ritorno. Il ‘77 bolognese è stata una stagione irripetibile, unica nel mondo perché si è verificata solo in Italia. Nel 1978 viene ucciso Aldo Moro e già da quel momento capiamo che, rossi o neri che fossimo, se si fosse concretizzato il Compromesso storico tra Moro e Berlinguer non ci saremmo ridotti nelle condizioni in cui siamo oggi. I due grandi partiti popolari avrebbero fatto da scuso rispetto a vari sconvolgimenti, come la scoperta della P2 o Mani Pulite.
Avendo fatto parte dei Servizi, che idea si è fatto sul sequestro Moro? Si poteva salvare?
Indubbiamente è stato lasciato al suo destino. Ci sono diverse piste che portano alla Banda della Magliana e all’eversione nera che, a quel che risulta, sapevano benissimo dov’era imprigionato. E invece lo si è lasciato al suo destino. In questo modo si sono presi due piccioni con una fava: via il Compromesso storico e Zaccagnini, l’ala sinistra della Dc, segato come segretario.
C’è chi sostiene che i Servizi segreti fossero infiltrati anche tra le Brigate Rosse. Addirittura che Mario Moretti, uno dei capi, portasse avanti un doppio gioco.
Sì, anche se alla fine Moretti ha premuto lui il grilletto contro Moro. Comunque i Servizi erano in entrambe le parti e si sono serviti dei rossi o dei neri in base alle esigenze. In quel periodo era tutto molto istantaneo e improvvisato. L’unica struttura organizzata erano le Br, ma già i Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari) lo erano molto meno, andavano random. Comunque, ognuno con la propria idea, si pensava che sarebbe stato possibile cambiare la società. E i Servizi sfruttavano la strategia dei due opposti estremismi che faceva comodo anche agli Stati Uniti.
È in quel contesto che lei viene trovato dalle forze dell’ordine in possesso di una pistola P38, processato e condannato. E da quel momento decide di commutare la pena mettendosi a disposizione dei Servizi segreti.
Ci fu una spiata. Eravamo appena usciti dal Dams, in Strada Maggiore, e ci beccarono. Quello che era con me aveva parlato con qualcuno la sera prima ed è arrivata la soffiata alla polizia.
Come riuscì a proporsi di commutare la pena mettendosi a disposizione dei Servizi?
Attraverso alcune conoscenze di mio padre, che era stato partigiano antifascista. Sapendo l’inglese “come Fenoglio”, diceva, perché allora erano in pochi a saperlo, durante la guerra aveva svolto l’attività di trasmissione dei messaggi radio dei sommergibili per conto degli Alleati. Non se lo è mai perdonato di avermi fatto quella proposta.
Non si aspettava che la avrebbero coinvolta in missioni pericolose?
Mio padre è morto nel 1990 e se ne è andato con il peso di questa storia. Pensavamo di essere a disposizione in modo blando, invece sono arrivato a uccidere. Mia madre sa pochissimo di queste vicende, si è sempre rifiutata di conoscerle. Non ha letto neppure Il Risolutore.
Quello che emerge dal libro, però, è che a un certo punto sembra aver capito di essere portato per quel tipo di missioni fino a prenderci gusto.
A causa di un grande lavaggio del cervello che ho subìto. Venni dislocato a Camp Ederle a Vicenza, adesso posso dirlo, per l’ultima parte dell’addestramento. Non pensiamo a robe in stile Rambo. È più una questione psicologica. Prima capiscono per cosa sei portato e poi ti tirano fuori l’altro te, cioè quello che a loro interessa. Ho iniziato come stalker, che non ha il significato che intendiamo oggi. Semplicemente ho un grande senso dell’orientamento, se mi metti in un posto so dirti come tornare indietro o raggiungere una meta. Il rapporto sbagliato con mia madre deve aver influito.
In che senso?
Che in casa mia si sono invertiti i poli: mia madre era mio padre e mio padre era mio padre.
Insegnante, scrittore, poeta, pittore e parallelamente anche agente sotto copertura. Come riusciva a conciliare queste molteplici vite?
Sono stati 25 anni in due dimensioni. Una sorta di schizofrenia auto-imposta. Le missioni duravano poco, circa 3-4 giorni, in Bosnia nel ‘94 la più lunga. Andavamo, colpivamo e tornavamo. Una volta in Libano l’obiettivo era Walid Jumblatt, leader politico della comunità drusa. Ormai si può dire.
Come mai doveva essere eliminato?
Faceva il doppio gioco, cambiava spesso posizione e agli israeliani non andava bene. Loro hanno agito in Libano militarmente, ma le questioni più pesanti le hanno delegate ai cristiano-maroniti. Andai varie volte in Libano, solo che non so tutti quelli che dovevamo colpire perché ce lo dicevano all’ultimo e non sempre poi siamo andati fino in fondo. Una di queste volte morì un appartenente alla legione straniera francese che ci copriva le spalle quando uscivamo dalla linea verde che tagliava Beirut a metà. All’ultimo arrivò un contrordine e con Jumblatt non andammo in fondo.
Cosa ha provato la prima volta che ha ucciso una persona?
La riflessione viene sempre dopo. La prima è stata a Roma ed ero poco più che ventenne. Ho provato una forma di timore che si univa a una sorta di esaltazione. Quando sei sotto copertura ti tenti un intoccabile. Puoi fare quello che vuoi, naturalmente rispettando alcune regole. Quando non si arriva a una ricostruzione vuol dire che i Servizi hanno lavorato bene. Poi critichiamo Putin perché usa il polonio, noi non usavamo il polonio ma ammazzavamo lo stesso. Ci tengo a precisare che allora si trattava del Sismi e del Sisde, non dell’Aise e dell’Aisi odierni. Romano Prodi ristrutturò poi quegli organismo perché c’erano molte devianze.
Quindi i Servizi segreti deviati non sono soltanto una leggenda.
Certo che no, ma in Italia tutto è deviato. Pensa solo alla storia della Uno Bianca. Nel nostro Paese non sai mai con chi veramente stai parlando: siamo levantini e in questo non ci sono differenze tra nord e sud. Forse è maggiore al sud soltanto il rapporto malavita–Servizi, con una connessione più stretta da Roma in giù nelle aree di maggiore influenza delle mafie. Ma è sempre un confine molto labile tra legalità e illegalità.
Non a caso al nord, in Veneto, abbiamo avuto la Mala del Brenta.
Quella era una cosa a parte, ma sempre infiltrata dai Servizi. Felice Maniero l’ho incontrato mentre seguivamo uno vicino a Pier Luigi Concutelli (terrorista di estrema destra, nda). Entrai in un bar e lo vidi parlare con altre persone conosciute negli ambienti neri, da lì capii che stavano acquistando armi da Maniero. Ma la sua vicenda giudiziaria fa capire moltissimo di quanto fosse aderente a certi ambienti, infatti è diventato un collaboratore di giustizia e li ha fatti prendere tutti. Un super infame.
Sembra strano parlare con il pronipote di Alessandro Manzoni e il cugino di Piero Manzoni più di spionaggio che di cultura.
Piero l’ho conosciuto, anche se ero molto piccolo perché è morto quando avevo 6 anni. Veniva a casa nostra e mangiava la pizza fritta di mia nonna. Era molto vicino di mio padre perché aveva sempre bisogno di soldi e la sua famiglia gli chiudeva spesso i rubinetti. Era rimasto sconcertato dalla crescita fulminante del polo petrolchimico di Ravenna. Alcune sue opere ispireranno in seguito Michelangelo Antonioni in Deserto Rosso.
Famiglia di artisti i Manzoni, ma anche di nobili di spada. È vero che tutto parte da un delitto eccellente nel ‘500?
Esatto, da quando venne strozzato, nella villa Manzoni dove sono poi stati trucidati i miei cugini subito dopo la Seconda guerra mondiale, il cardinal Bentivoglio. La sua famiglia era in declino ma aveva ancora in mano Bologna. Una presenza che non permetteva agli Estensi di entrare nella Romagna ferrarese. E con ogni probabilità uno dei due sicari era un Manzoni.
E lei ha portato avanti la “tradizione”, sebbene in altre forme.
Purtroppo sì. Uno dei fratelli di Piero Manzoni, Giacomo, una volta mi ha detto quanto fosse sconcertante come i Manzoni di Romagna fino a una certa epoca fossero tutti uomini d’armi. Poi a un certo punto scrittori, letterati, pittori, artisti in generale. È abbastanza strano. Forse è una sorta di proiezione immaginifica di quello che hanno compiuto i nostri antenati. Abbiamo dentro una componente avventurosa. Un altro Manzoni era con D’Annunzio durante la “La beffa di Buccari” (un’incursione di motoscafi della Regia Marina contro una nave austro-ungarica nella baia di Buccari, oggi in Croazia, nda). L’imprinting di certe famiglie esiste, è fuori di discussione.
Lo scrittore Aurelio Picca, in una precedente intervista, mi disse che «artisti e criminali un tempo erano molto simili, perché entrambi puntavano all’assoluto».
Stimo molto Picca e sono d’accordo con lui. Perché se hai cose da raccontare lo puoi fare, se non le hai è meglio se non cominci neppure. Oggi si fa dell’intimismo, visto che il massimo che hanno fatto nella vita certi scrittori è mescolare lo zucchero in una tazzina di caffè.
Mi sembra di capire che a un giovane non consiglierebbe le scuole di scrittura.
Assolutamente no. Non ci credo per nulla a quelle scuole. È come importi di credere in Dio, ma se non credi nessuno ti può costringere. Puoi raffinare il talento, certamente. Possono insegnarti a scrivere, ma non la creatività. Quella o ce l’hai o non ce l’hai. Tutti noi abbiamo delle predisposizioni, il guaio di oggi è che anche chi non ce l’ha scrive o dipinge ugualmente.
Per avere intellettuali o artisti che all’occorrenza impugnano le armi bisogna tornare agli inizi del ‘900.
Oggi sicuramente non ne vedo in giro con quell’atteggiamento. Io mi sento molto figlio del ‘900.
C’è qualche scrittore contemporaneo che segue con interesse?
Continuo a leggere gli scrittori segnalati da Pier Vittorio Tondelli come Silvia Balestra o Enrico Brizzi, così come Silvia Avallone che ha proseguito quell’ondata generazione con Acciaio dove ha raccontato le acciaierie di Piombino. Uno stile che però era già concluso negli anni ‘80, ma qualcuno continua a mantenerlo in vita come una bandiera. Stiamo molto Aldo Busi, uno dei pochi in grado di scrivere davvero. Di altri non capisco perché possano prendere la pensione e io no.
Come mai non può avere la pensione?
Quando si concluse il mio lavoro nei Servizi, il referente mi disse: “Ma scusa, hai mai saputo che un galeotto venga pagato per stare in carcere?”. Sono rimasto spiazzato. Mentre un Aldo Nove prende la Legge Bacchelli (il fondo statale a favore di cittadini illustri che versino in stato di particolare necessità, nda) quando ha firmato qualsiasi cosa a favore di Cesare Battisti. Oppure a scapito di altri che hanno vomitato per anni su Berlusconi e continuano a stampare con Berlusconi, come se avesse due anime diverse. Gente come Roberto Saviano per capirci.
Questione di coerenza?
Diciamo che oggi la dimensione intellettuale italiana è in mano a molte puttane. E che la coerenza non sanno neanche cosa sia. Io sono sempre stato contro il sistema e quindi ho lavorato con Feltrinelli, al massimo con il Saggiatore che era una cosa a parte da Mondadori. Non trovo lo stesso atteggiamento da parte di questi barricaderi che si trovano sempre d’accordo sui soldi, che poi alla fine sono quattro soldi visto che di editoria in Italia campano in pochi.
I dati di vendita dell’ultimo anno parlano di circa 1 milione e 300mila libri venduti, che suddivisi per le migliaia di titoli stampati portano nelle tasche degli autori, per la maggior parte, davvero pochi spiccioli.
Ma devi tenere conto del business del macero che non è da non sottovalutare. E in quel caso per smaltirli siamo noi cittadini che paghiamo. Ci sono titoli di grandi case editrici che stanno sugli scaffali della libreria dai 15 ai 21 giorni, poi vengono eliminati. Va molto meglio quello che arriva dall’estero, mentre noi italiani non esportiamo quasi nulla. I francesi Gilles Deleuze e Félix Guattari, quando vennero a Bologna per conoscere il Movimento del 77, parlavano dei nostri narratori come di “novellieri”. Che per loro è come dire autori di “raccontini”.
Però in quel periodo a Bologna c’era un certo Umberto Eco.
Ecco, lui è stato uno dei pochi a poter vivere di pubblicazioni. E nel 1980 ha dimostrato come costruire un bestseller a tavolino. Era uno molto cinico su queste cose. Un intellettuale freddo. Si mise proprio in testa scientemente di costruire un successo e così è nato Il nome della rosa. Un libro che però manca d’amore, di phatos, se non teniamo conto dell’amore del sapere.
Somiglia al percorso di Franco Battiato, che dopo anni di sperimentazioni decise di avere successo e sfornò la trilogia L’era del cinghiale bianco, Patriots e La voce del Padrone.
Battiato per la nostra generazione era considerato un grosso bluff. Lo conobbi nel periodo in cui fondò la casa editrice l’Ottava. Ma ricordo quando portò la prima del Gilgamesh al Regio di Parma. Mi invitò lui stesso perché aveva letto un mio libro. Purtroppo rimasi senza parole. In tutta la sua dimensione esoterica credo abbia giocato molto l’aspetto temporale con il ritorno della New Age. Ma che sia considerato un post modernista non c’è dubbio, uno dei pochi italiani.
Invece politicamente lei si è definito “fascio-comunista”, un termine che è tornato in auge qualche anno fa con Antonio Pennacchi e il suo libro premio Strega, Canale Mussolini.
Antonio Pennacchi l’ho conosciuto in finale a un concorso letterario. Non c’è stato feeling, non tanto per il carattere ma perché ci marciava molto su quella definizione. Il “fascio-comunismo” parte dall’800, dai nazionalbolscevichi, e arriva fino a oggi con i russi Limonov e Dugin. Ci siamo ancora dentro fino al collo.
Cosa significa essere “fascio-comunisti” oggi?
Come ho scritto nel libro Il sacrificio dei Pedoni (Castelvecchi), crollate le grandi speranze di cambiare le cose, l’estrema destra e l’estrema sinistra collidono fino a formare la “Terza posizione”. Non possiamo dimenticare la figura di Nicola Bombacci, affascinato da Lenin è uno dei fondatori del Partito comunista italiano, durante il Ventennio aderisce al fascismo, poi partecipa alla creazione della Repubblica di Salò e alla fine, invece di scappare, rimane al fianco del Duce e quando i partigiani stanno per fucilarlo le sue ultime parole sono: «Viva l’Italia! Viva il Socialismo!».
È un po’ audace sostenere che al fianco di Mussolini cercò la realizzazione del socialismo, soprattutto dopo i vent’anni precedenti di dittatura, no?
I 18 punti della Repubblica sociale, se togli quello contro gli ebrei, li avrebbe firmati un qualsiasi comunista. Quello è l’unico periodo in cui vengono nazionalizzate le fabbriche, tanto che gli Agnelli vanno a casa perché la Fiat viene presa in mano dai fascisti e le macchine da produzione difese fino a sette giorni prima dell’arrivo dei Gap rossi (Gruppi di Azione Patriottica, nda). Non ci si chiede come mai i tedeschi non hanno smontato niente in Italia, rispetto alla Francia? Perché dobbiamo dire grazie alle camicie nere. E poi la previdenza sociale e le case operaie? Mussolini era un socialista massimalista e nella Repubblica sociale e, nella follia di quel periodo, negli ultimi 16 mesi di guerra ha messo a punto tutto quello ciò che credeva fosse giusto nella sua idea di Stato.
Con la vittoria alle elezioni di Giorgia Meloni c’è chi teme un ritorno del fascismo.
Il fascismo non tornerà perché è stata eletta la Meloni. Lei ha già contattato Sergio Mattarella che le ha passato le chiamate da Washington e Bruxelles e conosce bene il gioco che la aspetta. Io sono sempre stato per una pacificazione nazionale, nonostante abbia avuto quattro cugini ammazzati perché fascisti. E i responsabili dopo solo 4-5 anni di carcere tornarono fuori e accolti in Romagna acclamati come eroi. Ma venne ucciso anche il fratello di Pasolini, Guido, partigiano fatto fuori da partigiani in circostanze mai chiarite. Per una memoria condivisa serve una pacificazione nazionale. Ma noi patiamo una guerra civile sotterranea che non si è mai fermata.
Oggi ancora si litiga sul cantare o meno Bella ciao.
Sono cose di una ridicolaggine assoluta, quando io posso dire che per 25 anni ho commutato una condanna attraverso i Servizi segreti. Quando ancora adesso quelli che combattono con la Russia o con l’Ucraina sono galeotti che hanno commutato. Se Zelensky ha l’Azov, Putin ha la Wagner. E addirittura si sparano addosso tra destre: Casa Pound ha preso le parti dell’Ucraina e Forza Nuova quelle della Russia.
In Italia c’è una particolare confusione sulla posizione da tenere in questo conflitto.
Siamo abbastanza ininfluenti, adesso la prima linea è la Turchia. Siamo in braghe di tela perché geopoliticamente non abbiamo più un ruolo. Quando eravamo centrali arrivavano soldi sia dall’America che dalla Russia. Ma è già da tempo che siamo soltanto al seguito degli Stati Uniti senza pensare ai nostri interessi, io ne ho avuta riprova in Afghanistan.
In un’altra missione sotto copertura?
Una decina di anni fa, ero già fuori dai Servizi. Ma un amico che era rimasto dentro mi chiama, mi invita ad andare a vedere com’è la situazione e, nonostante già soffrissi del morbo di Chron e avessi una figlia a cui badare, torna il “richiamo della foresta”. Andai alla base di Herat.
Che era quella in cui erano stanziati i contingenti italiani.
Durante la mia permanenza vidi soltanto i militari giocare a calcio o a pallacanestro. Dei talebani neanche l’ombra. Sai perché?
Me lo dica lei.
Perché noi italiani paghiamo. Come Nicola Calipari (poliziotto impegnato nella liberazione della giornalista Giuliana Sgrena in Iraq, nda) che fu ammazzato dagli americani per darci un segnale di smettere di pagare, ma siamo andati avanti. Il problema è che gli americani continuano nella menata di voler adattare il territorio ai loro metodi di guerra, come in Vietnam. Invece devi adattarti tu al territorio. E così a Herat dieci anni prima era evidente che avrebbero vinto i talebani. Se uccidi i civili i loro figli o parenti per tre generazioni penseranno soltanto a vendicarsi. Senza volerli esaltare o paragonare ai nostri partigiani, è gente che combatte per qualcosa e, volenti o nolenti, hanno una forza che a noi manca da tempo.
In base alla sua esperienza, come vede l’evoluzione della guerra in Ucraina? Sembrava che i russi si stessero ritirando, invece ora viene bombardata di nuovo Kiev.
Non la vedo bene. La ritirata potrebbe essere appunto strategica, come sembra, per poi contrattaccare e forse con armi peggiori. Io se fossi al fronte penserei al peggio, non al meglio. Ma sai cosa mi impressiona di più?
Cosa?
L’indifferenza della gente. È sconcertante come siano tutti lobotomizzati. Eppure ho dei ricordi di quando ero piccolissimo e per la crisi di Cuba mio padre stava attaccato 24 ore al giorno alla radio. Il mainstream è per il buonismo, per Zelensky, ma dimentica che nel ‘90 in molti spingevano per la Russia nella Ue. Naturalmente gli Stati Uniti si opposero. Ma ancora oggi la destra guarda a Putin come a chi mantiene un concetto di tradizione senza rinnegare i suoi trascorsi da Kgb e da comunista. Bisogna andare oltre le categorie senza demonizzare per una soluzione del conflitto.
Con queste posizioni è facile che la accusino di avere simpatie autoritarie, se non peggio.
La follia dell’Italia è che in molti non concepiscono possano esistere gli anarchici di destra, liberi pensatori che non partono da posizioni di sinistra, come era Louis-Ferdinand Céline. Cioè chi vuole mantenere un senso profondo della tradizione. E chi ha questo atteggiamento viene definito nazionalista o fascista. La sinistra ha gestito la cultura dal ‘45 anni in poi e se non sei di sinistra ancora adesso pubblichi con case editrici minori. Invece sarebbe importante una pacificazione nazionale, riconoscendo anche i meriti di chi non la pensa come te.
Se si guarda indietro ha dei rimpianti?
No, perché non ho mai fatto delle porcate. Non posso dire che quelli eliminati se lo meritassero, ma sicuramente se non l’avessimo fatto noi l’avrebbero fatto altri. Era una partita di scacchi, anche se underground. Lo stesso avviene mentre stiamo parlando a lato delle varie guerre nel mondo.
Ha detto che non c’è scuola che possa portare alla fede. Lei è credente?
Diciamo che è stata la fede a recuperarmi dopo tanti anni. Ho passato moltissimo tempo a non confessarmi e ora sono tornato a farlo. Amo molto i monaci, mentre ho più attrito verso il clero. Ma se devi chiedermelo ti anticipo, non amo Bergoglio, preferisco intellettualmente Ratzinger. Anzi, sai cosa penso? Che Papa Francesco dovrebbe fare il segretario del Pd e forse potrebbe risollevare le sorti di quel partito.
Dopo aver ucciso altre persone, ha paura della morte?
Con estrema sincerità ho pensato due volte a spararmi in testa. La prima volta nel 1993, mi sgonfiai completamente. Ma l’anno dopo ero di nuovo in Bosnia. E la seconda di recente, perché non riuscivo più a ritrovare la poesia in questa società senza stimoli. Ma la vita è cambiata da quando è nata mia figlia, a cui sono legato da un grandissimo amore. Ho dovuto crescerla da solo, visto che la madre ha dei problemi psicologici. Ma non rinnego niente di quello che ho fatto, mi sono concesso molta misericordia.
Un po’ come nei I promessi sposi del suo illustre antenato…
L’altro giorno sono andato nella zona delle valli di Comacchio, sul Delta del Po, e c’era una luce filtrata dalla foschia che mi ha ricordato di quando accompagnavo mio padre a caccia. Ho sentito lo stesso respiro, poeticamente parlando. Se c’è una entità che va oltre la condizione terrestre, allora le chiedo solo di spogliarmi di tutto quello che ho vissuto e riassaporare quelle emozioni legate all’infanzia. E come fece mio padre, anch’io mi affido alla divina provvidenza e alla misericordia.