Definito Oldchella per via dell’età media (72 anni) dei partecipanti sul palco eccoci a Indo, Palm Springs in California per vedere Rolling Stones, Bob Dylan, Neil Young, Paul Mc Cartney, Roger Waters e gli Who. Cartello da paura, attesa a mille, eccitazione infinita, mentre mi infilo il braccialetto che mi permetterà di rimanere qui dentro per 3 lunghi e gloriosi giorni di musica.
Flashback: la prima volta che ci sono stato, fu nel lontano 2008. Visto che la mia generazione ha perso Woodstock, vorrei citarvi i miei concerti mito, quelli che grazie alla musica “ti senti vivo”, quelli che ti fanno ringraziare lo spirito umano. Vasco a San Siro, i Clash a Reggio Emilia, Bruce Springsteen con il The River tour in Nebraska nel 1982. Lo stesso dicasi per Neil Young (secondo album da me comprato), Pearl Jam con Mr.Eddie Vedder e Up in Smoke Tour di Dr. Dre, Snoop ed Eminem, the best of the best. Non essendo mai stato un fan ne dei Greatful Dead, ne di Lollapalooza, ecco che le occasioni musicali da gustare in gruppo sono veramente poche (come il SXSW South By Soutwest ad Austin), quasi nulle, finché non scopro (allora!!) nel 1999, l’esperienza musicale moderna più coinvolgente del secolo, contrassegnata con il nome di Indio Music and Arts Festival ma più comunemente conosciuta come Coachella. A circa 2 ore da Los Angeles, minuti da Palm Springs, più precisamente all’Empire Polo Field di Indio, California. Un appuntamento da segnare sul calendario della mia vita. Da allora (Chemical Brothers, Beck, Rage Against the Machine, Tool, Gus Gus, Moby, Morrissey) ci sono stato diverse volte, sempre meno col passare degli anni, visto che tante cose sono cambiate: lo spirito (troppi yappies & hipsters), il costo (un weekend può costare anche $1000, visto che i biglietti sono già esauriti da mesi), l’esperienza (adesso ci sono chef e pool parties dove una volta c’era una cisterna che passava e innaffiava tutti) e anche la musica, troppa gente “famosa”, troppa gente che secondo questo giornalista non merita 12 ore sotto al sole, nel mezzo al deserto, per sentire un lavoro “ricamato” dalla casa discografica, che adesso vede (insieme alle navi da crociera) Coachella come un evento pubblicitario, di richiamo, una business card da passare ai nuovi fans. Onestamente, bisogna anche riconoscere che è un luogo bellissimo, l’atmosfera è veramente tipica di un concerto anni 60/70, ala Woodstock per intenderci e se vogliamo scomodare social e fashion, nei due mesi all’anno in cui c’è Coachella, da qui vengono lanciati un sacco di trend.
Ma torniamo a noi. A me, che alle 3 del mattino, seduto sullo sgabello dell’hotel, col culo in piscina, batto sui tasti del fedele computer (se qualche marca/brand volesse regalarmi un nuovo portatile, sono a completa disposizione) per raccontarvi un evento storico, straordinario, uno di quelli da aggiungere al mio calendario-vita. Sono appena passati pochi minuti dall’evento (3 giorni 14/15/16 ottobre), e mi sto riprendendo SOLO ora da fame, fatica, felicità, pianto, disidratazione e spossatezza per aver cantato e ballato sempre fino a tarda notte, dall’esperienza musicale moderna più coinvolgente del secolo, Desert Trip 2016 ribattezzato prontamente Oldchella 2016 per via dell’età media (72 anni) dei partecipanti sul palco. Eccoci qui a vedere i Rolling Stones, Bob Dylan (il latitante Premio Nobel per la letteratura), Neil Young, Paul McCartney, Pete Townsend e Daltry dei The Who e Roger Waters dei famosissimi Pink fucking Floyd, eroi cartesiani e filosofi della mia generazione (25/30 anni fa). Fra tutti sono venuto per vedere Neil Young ma sopratutto gli Stones che non ho mai visto.
Sì, vecchi ma buoni, con una miriade di album platino ciascuno: McCartney 21, Rolling Stones 19,Roger Waters 8: Bob Dylan: 11, The Who: 7 e per finire ecco il mio mito Neil Young, con ben 7. Basta parlare, partiamo dalla musica, e dalle mie riflessioni (solo per illustrarvi contenuto e sostanza, ma poi vi prego di andare su YouTube e di guardare per intero i concerti di ogni band), da prendere come volete, tanto io c’ero. Lo so. Ho visto e sentito. Pianto e riso. Goduto come un matto e come mai.
14 ottobre Bob Dylan e The Rolling Stones
Si entra, campo enorme, spaziale, infinito, dove regna sovrana la classica Desert Wheel, la ruota panoramica, simbolo di Coachella. Centinaia di giovani, ma migliaia di 40enni, 50enni, 60enni e 70enni. Solo la musica può tanto. Grande! Arriviamo (sono con Stefania Rosini, la MIA fotografa preferita di sempre) ed entro nel pit, (ho VIP passes per Rolling Stones, ma siccome sono la Bestia entro nel pit sotto al palco anche per Dylan, meglio scialare ora, perché domani saranno cazzi, ho solo General Access) per vedermi Bob Dylan, fresco vincitore del Premio Nobel. Mi giro e ritrovo un vecchio amico, Woody Harrelson, ed Emma Stone (bellissima) e finalmente single. Due saluti e via, in mezzo alla folla. Comincia Rainy Day Woman, Love Sick, Pay in Blood, altri brani che non conosco e poi Encore con Like a Rolling Stone. Che dire di Bob Dylan? Bello, perché è Bob Dylan, poeta generazionale di una vita, ma a parte i magnifici pantaloni e 3/4 canzoni, debbo ammettere che non mi son strappato i capelli, perché non ha cantato i suoi cavalli di battaglia e perché onestamente sono qui per gli Stones che suoneranno subito dopo e che NON HO MAI VISTO.
NOW I GET IT. Adesso finalmente capisco. Li ho visti per la prima volta in concerto, all’alba dei miei 55anni e dei loro 70 e passa. Dopo un concerto favoloso (5 o 6 cambi di chitarra minimo, per ogni singolo membro della band) strepitoso (2 ore e 40 minuti) entusiasmante (giovani, piccoli e quella della loro/nostra generazione) trascinante (Start me up, you Can’t get what you want, Sympathy for the Devil, A-n-g-i-e, Give Me Shelter) mi sono fucking ricreduto. The Rolling Stones sono la storia del rock, del rock moderno. Allucinante, da brividi, pianti e sorrisi a 24 grilles (denti). Scordatevi i miliardari in pensione che arrivano, afferrano una stratocaster e cantano 2 cagate. Qui stiamo parlando di professionisti assoluti della musica, maniacali nella precisione del sound e dell’esecuzione, perfezionati in più di 50 anni di lavoro. E la cosa più bella è che si vede che si divertono ancora come ragazzini. Keith Richards, oltre a ad aver chiuso il concerto con due flessioni (!!!!) sul palco, non è stato fermo un nano secondo, seguito a ruota dalla voce tagliente e mosse piene di ‘verve’ di Mick (dobbiamo dire che è Jagger), dall’assoluta compostezza di Charlie Watts alla batteria, all’energetica e imprevedibile performance di Ron Wood.
Ricordate che prima vi parlavo di trend, di movimenti dove la musica è associata a dei messaggi sociali? Beh, in questi 3 giorni ho visto centinaia di ragazzi e ragazze esibire un segno (5 colori), un tatuaggio (rimovibile) che tutti portavano stampato sulla fronte, visto che rappresentava la propria tribù di appartenenza. Ho chiesto, indagato e scoperto che Virality, (così si chiama l’atto di viralizzare l’umanità) è semplicemente un gioco, un nuovo modo di vedere e incontrare le persone rispettando oltre ai valori umani, la propria personalità e non la categorizzazione che il mondo delle corporation ti assegna. Da questo concetto, sono state identificate 5 grandi “tribù”, identificate a loro volta da un logo declinato in 5 colori differenti: BLU (Creative) per i creativi e gli artisti; GIALLO (Cultural) per coloro che vogliono sapere, leggere e conoscere; VIOLA (Emotional) per coloro che vivono per i sentimenti, GREEN (Natural) per quelli che amano la natura, l’ecologia e gli animali; e quello espressamente scelto dalla vostra Bestia, il virality RED (Physical) per quelli che vivono per il cibo, il sesso, lo sport… Forza ragazzi, amala! Che dire… divertente andare in giro ed incontrare altra gente con il tatuaggio rosso in front, un modo facile e simpatico di abbattere da subito alcune barriere relazionali. Musica adesso.
15 ottobre Neil Young e Sir Paul McCartney
Adoro Neil Young, cuore rockettaro, ribelle e tradizionale di un’America che sta scomparendo sotto ai nostri occhi. Arriva sul palco, stivali da cowboy, jeans neri, shirt, l’immancabile cappello calato sulla fronte, da dove spuntano i 2 trademark che l’hanno accompagnato tutta una vita: le folte basette “sale e pepe” e l’immancabile armonica in bocca. La sua band è formata da quattro chitarre, ragazzini così giovani che potrebbero essere suoi figli (due di loro lo sono) e tutto ciò che lo circonda sul palco ci ricorda country-folks-Americana stories. Classic Rock’n’Roll, Neil Young. Le prime tre canzoni (After the Gold Rush, Heart of Gold, Old Man) portano subito il pubblico ad un’ovazione di mezzora. Questi sono i cavali di battaglia della mia generazione (prima di Bruce Springsteen) quando ascoltando le sue parole sognavamo di essere cowboy, fuorilegge, avventurieri, in terra yankee, alla ricerca del famoso american dream. Il suo stile/chitarra è preciso, tagliente, interminabile, melancolico, va diritto al cuore, la sua voce ti prende e non ti lascia più, scuotendoti da capo a piedi. Testi e musiche che ti danno coraggio e ti costringono ad una ricerca interiore per scoprire who the fuck are you (chi sei). Neil Young non delude mai, al punto che è l’unico in queste due serate a dire qualcosa sull’attuale politica americana, nel suo caso specifico una legge ridicola contro il trasporto di weed seed (semi delle piantine di marjiuana), che ha lanciato e distribuito orgogliosamente al pubblico. Questo è Neil Young.
Subito dopo è la volta del baronetto della musica inglese: Sir Paul McCartney. Sempre dotato di perenne sorriso e ciuffo ribelle che ci riportano ai tempi storici dei Beatles. Nonostante una set-list per me poco suggestiva (almeno nelle prime 5/6 canzoni) come negare bravura, magnetismo, sex appeal, di uno dei vecchietti più terribili del Rock’n’Roll. Folla in delirio quando dal nulla esce Rihanna con la quale intona Four Five Seconds. Seguito da duetto con Neil Young ed un finale-apoteosi con Let it Be, Live and Let Die e Hey Jude.
16 ottobre The Who e Roger Waters
Domenica, ultima giornata. Stanchezza a mille, sole cocente, caldo atroce, $20 dollari per un bicchiere di cabernet, $50 per una maglietta, $75 per un poster, Leo di Caprio, Casey Affleck e Tommy Lee Jones visti gironzolare per Polo Field. Meno male che The Who ci fanno sentire la bellezza di 21 canzoni! Tutti hanno la classica maglietta con tanto di il simbolo dei Mods, la vostra Bestia invece ha le scarpe Vans vintage (foto). Felice di dirvi che The Kids are Alright, sia Roger Daltry che Pete Townsend hanno letteralmente incendiato il palco, fatto scatenare e pogare come ai vecchi tempi gli spettatori nel pit, se non cantare i 95 mila presenti. Pete, elegante, esperto, maestro nell’arte del riff (si è persino tagliato la fronte con la chitarra), mentre Roger, non ha lesinato corde vocali e “faccia” quando ad un certo punto non riusciva a raggiungere una nota, senza alcun problema, smette, riprende il fiato, non si da per vinto e ce la fa sentire. “Tommy can you hear me, can you see me” se non siete dei grandi conoscitori dei The Who, please guardare due film capolavori, Tommy e Quadrophenia. Non ve ne pentirete.
Insieme a David Gilmore (chissà perché avranno mai litigato e non si parlano più) al compianto Syd Barrett ecco Roger Waters, considerato uno dei più grandi parolieri, poeti, visionari della storia della musica. Insieme a Richard Wright, formavano i magnifici, istrionici, iconografici e rivoluzionari Pink Floyd. Ci si aspettavano le canzoni più potenti del gruppo e Roger non ci ha delusi, cominciando da Speak To me, Breathe e poi per la delizia di tutti ecco Set the Controls for the Heart of the Sun, seguito da One of These Days. Istrionico, bellissimo (assomiglia a Richard Gere), statuario, imponente, eccolo proseguire con Money, Shine on You crazy Diamond (con set e laser show mozzafiato, per non parlare delle coreografie!!) e Welcome to the machine, Wish you Were Here, fino ad arrivare, lui che è inglese, primo fra tutti questi gruppi che nel bene o nel male negli anni 60/70 hanno contribuito con la loro musica alla rivoluzione sociale e politica del tempo (anti-Vietnam, ACLU, razzismo, segregazione) a dire qualcosa sull’attuale situazione politica americana e su quel “pig-maiale, falso, ladro, xenofobo, razzista, bugiardi” di Donald Trump, scritto a caratteri cubitali sulle ‘fiancate’ virtuali dei Battersea Power Station. BRAVO! Da non dimenticare la diatriba anche personale contro la guerra in generale e contro la violenza in Palestina. Sono letteralmente rimasto a bocca aperta, e non voglio dirvi nulla perché rovinerei una delle più belle sorprese musicali di questo “secolo”. Voglio che andiate a vederlo, anche su YouTube. Visivamente incredibile, uno dei migliori concerti della mia vita. Sign out, peace out La Bestia.