A Roma c’è un posto tra Collatino e Centocelle in cui niente di brutto può accaderti. Se, come una Dorothy Gale contemporanea e non rurale, armata di una borsa termica e di un’insolita fiducia nel traffico, riesci a trovare il sentiero, non proprio dorato, che da via Prenestina porta all’Esselunga Superstore, all’angolo tra il vuoto e viale Palmiro Togliatti (uno dei più grandi e celebrati bordelli a cielo aperto d’Italia), allora puoi passare una giornata intera a fare cose mai fatte prima.
Centocelle non è un quartiere ma una città da sessantamila abitanti, in miniatura. È una zona così abnorme e mutevole che ha il suo centro storico, il suo centro moderno, e le sue periferie: aree più o meno alternative, più o meno commerciali, più o meno residenziali: il suo Pigneto e i suoi Prati. Forse ha pure, sperduta da qualche parte tra via delle Acacie e via dei Gelsi, certamente non lontano dall’Osteria Bonelli, una sua Centocelle, una meta-Centocelle. Se visiti oggi Piazza dei Mirti, tanto sfacciatamente orgogliosa della sua nuova fermata della metro C, come dei suoi primi, timidi SUV in doppia fila, capisci subito che qui potrebbe sorgere la Roma Nord di Roma Est. Ci trovi latterie con cucina, cucine con champagneria, gioiellerie con McDonald’s e tutte le altre piccole e grandi contraddizioni di una periferia che sta vivendo a scoppio ritardato il suo boom degli anni Sessanta, sessant’anni dopo, e che, davanti a un genio della lampada a LED che, miracolosamente, stava ad ascoltarla, forse non è stata molto attenta a quello che desiderava. Così, Centocelle ha i suoi Parioli e, dall’altra parte della Prenestina, dentro a un gigantesco supermercato, la sua piccola Milano.
Questa Esselunga, l’unica di Roma, sorge dal niente e ti offre tutto. Avendo a disposizione praticamente una tabula rasa, i progettisti hanno deciso di gettare i petti di pollo oltre l’ostacolo, come e più che nei migliori punti vendita del gruppo, sperimentando soluzioni altrove impossibili, vuoi per ragioni di spazio, vuoi per più generico senso della misura. È un’enclave di pulizia, efficienza e disciplina, nascosta molto bene fra i casermoni del Collatino, da una parte, e le schiere di casette a due o tre piani, dall’altra. Ha la forma di una fortezza, coi suoi quattro torrioni a vigilare su qualunque invasore che non creda, con la stessa fermezza dei suoi architetti militari, nei valori della freschezza, del bio, delle offerte irresistibili. Il fossato, invece, è adibito a comodo parcheggio per tutti gli altri clienti.
È un posto in cui il degrado non esiste o, meglio, è un incubo bizzarro che stavi facendo prima di infilare la rotatoria giusta. Le buche nel manto stradale sono tutte chiuse da caramelle Haribo in edizione limitata. Qui la periferia romana è un video YouTube che hai preferito stoppare perché il WiFi ti prendeva troppo bene per non iniziare una nuova serie Netflix.
Nel mettere piede per la prima volta nel parcheggio, l’ultimo romantico che alberga a ore dentro di noi non può fare a meno di esclamare: “Ai tempi miei qui era tutto Pasolini”. Davanti a questa Esselunga, siamo tutti Holly Golightly, e non facciamo in tempo a pronunciare la fatidica frase: “Se io trovassi un posto al Prenestino che mi facesse sentire come al Bosco Verticale…”, che il nostro Tiffany ci si rivela in tutta la sua magnificenza.
I pochi metri che ci separano dal reparto ortofrutta sono un pellegrinaggio – neanche tanto laico – verso uno dei templi del consumismo più perfetti che l’uomo avrebbe mai pensato di costruire da queste parti: una cattedrale nel deserto che, al confronto, Dives in Misericordia di Richard Meier a Tor Tre Teste (poco più a est) sembra site-specific.
Questo è un Olimpo a un solo piano, senza alcuna altura da scalare, in cui ciascuna divinità presente è facilmente raggiungibile, grazie a cosmogonie dalla filiera corta: Giove è il direttore che tutto sa e tutto decide dietro la scrivania delle tessere fedeltà Fidaty (la cui sottoscrizione è un atto di fede non meno solenne di un Credo cattolico); Marte un addetto alla sicurezza Fidelitas (sic); Minerva è la cassiera che dispensa ai mortali dritte su come evitare la fila; Mercurio il garzone che un giorno deciderà di fare dono ai romani della consegna a domicilio (il servizio non è ancora disponibile nell’area).
Le cose che desideri di più, hai paura di prenderle dagli scaffali, perché potresti far crollare una teoria perfetta e apparentemente infinita di scatole, con colori digradanti dal più acceso al più tenue, e lo shock derivante potrebbe essere come il pizzicotto che ti sveglia da un sogno bellissimo che stavi facendo, in cui avevi a disposizione fino a 15 tipologie di pomodorino, per fare un’insalata verde.
Capisci quanto veramente la gente possa apprezzare la varietà quando, nei corridoi, vedi ragazzi che paccano pesantemente con una confezione di uramaki appena arrotolati.
Sfoggiare piena dimestichezza col funzionamento dei lettori di codici a barre Presto Spesa è uno degli status symbol più ricercati. Non vorrei essere un genitore che affronta la gogna filiale di pagare in contanti dopo aver passato i prodotti sul nastro, alla cassa, umiliazione pari solo al marchio dell’infamia di presentarsi muniti di una shopper riutilizzabile del vicino Eurospin di via Prampolini, anche se qui all’Esselunga sembra più lontano di Fiumicino.
Meno che da Decathlon, ma molto più che da Ikea, il grosso delle linee di prodotto è del tutto aspirazionale, saldamente al di sopra di ogni concreta necessità di persone reali. Per tutta questa varietà e ricchezza, la clientela si divide principalmente in due filoni: quelli che vengono per fare davvero la spesa e quelli che vengono per credere che tutto questo sia possibile.
Si passa molto rapidamente dai prodotti naturali ma rari che non hai mai sentito nominare (come le micro banane denominate bananito, da non confondere con le baby banana), che fingi di conoscere per non sembrare meno interessante al prossimo; ai prodotti che proprio non esistono in natura, e che sconvolgono il tuo senso delle priorità, mettendo a repentaglio anche la tenuta del concetto di famiglia, come le bottiglie da 37 cl di acqua Evian aromatizzata al lampone e verbena. Come sognare l’individualismo di una macedonia monodose con forchetta incorporata, quando a casa hai una famiglia di collettivisti da sfamare.
La particolare perversione estetizzante di chi organizza tutto questo sembra consistere, in primo luogo, nel mostrare aberrazioni di gusto, inattese o impossibili, di prodotti altrimenti di larga diffusione, come le sottilette Kraft messicane, i Flauti del Mulino Bianco alla stracciatella oppure – e qui sconfiniamo nel campo del decadentismo merceologico – il biscotto della salute (prodotto nordico già relativamente difficile da trovare a Roma nella sua versione classica) nella variante con fave di cacao e cocco, di cui probabilmente non è del tutto al corrente neppure il dottor Monviso che la firma.
Lo schiaffo alla normalità viene anche da proposte infinitamente più grandi o infinitamente più piccole di canoni alimentari consolidati, come le 1936 San Carlo in busta da 25 grammi (o 6 patatine) o il wurstel artigianale vegetariano largo come un braccio di bambino nerboruto. E dopo il pervertimento delle dimensioni non mancano le aberrazioni di formato, distopie alimentari, come la julienne di bresaola, i petali di bovino o lo stinco al forno da passeggio.
Resti a metà tra l’umiliato e l’eccitato, perché, come se tutto questo fosse un presente alternativo e non già – più semplicemente – uno scherzo del liberismo – sei portato a pensare che tutto il tempo della tua vita che hai impiegato a comprare Buondì classici o al cioccolato, da qualche altra parte del mondo a te preclusa, si vendevano già Buondì alle visciole o gallette a base di amaranto, capaci di fare sembrare la quinoa mainstream come la Coca-Cola degli pseudo-cereali. E senti di dover recuperare tutto il sale viola perduto.
Le toilette sono in marmi da hotel 4 stelle, per fare la pipì col sorriso in questa valle di lacrime. Il pavimento è talmente pulito, passato e ripassato da Amazzoni a bordo di lucidatrici futuristiche, che ti ci puoi specchiare, come un Narciso, evidentemente privo di ogni scrupolo a ingrassare.
Anche senza comprare niente, perfino senza toccare niente, ti piace restare seduto sulle panchine di legno, comodissime, praticamente semi-pubbliche, ma manutenute come nessun municipio potrà mai fare. Osservi gli altri clienti passare attraverso le porte scorrevoli, vestiti per una grande occasione, ancora meglio che per una messa: per un un’inaugurazione. Come esistono i governi a campagna elettorale permanente, devono esistere i supermercati a inaugurazione perenne. È sempre un’inaugurazione all’Esselunga del Prenestino, l’apertura di un futuro che si attendeva da decenni e che sembra essere arrivato.
Una parte di destino delle periferie di Roma è surgelata in uno dei banchi frigo sontuosi e strabordanti di questo supermercato. Un po’ come quelle 15 tipologie di pomodorino, che non sanno se saranno colte o se resteranno sugli scaffali.