L’offerta commerciale dei negozianti di Colli Albani, in relazione all’avanzamento della civiltà, non è adatta all’economia, ma loro non lo sanno e vendono lo stesso. Benvenuti nell’ultimo luogo di Roma che ha il coraggio di vivere libero dalle catene di elettrodomestici e da quelle del tempo.
Al confine tra Appio-Latino e Tuscolano, compresso tra il Parco dell’Appia Antica e il presente, questo piccolo quadrilatero di strade e memorie postbelliche rinacque nei primi anni ’80, sospinto dall’entusiasmo per l’apertura dell’omonima stazione della metro A. Quella fermata evocava, almeno nominalmente, al limite della pubblicità ingannevole, le arcadiche alture su cui poggiano i Castelli Romani, venti chilometri più a Sud; anche se di alto, a largo dei Colli Albani, c’erano solo i caseggiati a otto piani.
Da allora, non abbastanza periferica da aspirare alle evoluzioni underground di Arco di Travertino, coi suoi kebabbari di grido e i suoi parcheggi cyberpunk; ma neppure così centrale da potersi permettere le amenità di San Giovanni (i Coin multipiano, i megastore Cisalfa), Colli Albani non è cambiata più. Oggi è una zona in cui tanti vivono, ma dove nessuno si geolocalizza. Non un solo influencer posterà un invito a visitarla. Dopo Mostacciano, è forse la parte meno fotografata della città, e non per sopraggiunti motivi di degrado; anzi, forse proprio per l’assenza di esso, come del resto di molte altre possibili motivazioni a instagrammarla.
Eppure, Colli Albani è molto più del capolinea dei mezzi pubblici in cui sembrerebbe, per sineddoche (la metro per il tutto), intrappolata. Questo territorio non notiziabile, dimenticato dalla street art e sconosciuto agli hashtag, può vantare una user base piuttosto fidelizzata: i giovani d’epoca e gli anziani riqualificati che affollano di pantaloni di fustagno e sorrisi anacronistici le strade e la piazza che costituiscono, rispettivamente, i Champs-Élysées e la Times Square di questa mezza porzione di Roma: via delle Cave e largo dei Colli Albani. Scambierebbero e scambiano ogni giorno l’irrilevanza socialmediatica in cambio della serenità; tutti gli stupefacenti del mondo, per una commissione dal droghiere. Del resto, che bisogno c’è di Google Maps se si ha ancora Tutto Città nel cuore? Per loro, la vita può partire benissimo a piazza Re di Roma – due chilometri più a nord-ovest – ma non è detto che debba aspettarli, per cominciare: la raggiungono dopo, o le fanno un colpo di telefono, se proprio non riescono a passare.
Qui non c’è quasi niente di veramente bello o troppo brutto, solo il coraggio di accettarsi così come si era. Gli osti nativi, se solo i figli marketer non li boicottassero, vanterebbero, con un bel cartello scritto a mano e appiccicato sulla porta della trattoria, col rischio di nascondere l’affettatrice Berkel, sempre e solo un claim: vecchia gestione. Nelle vie dello shopping (intitolate perlopiù a intellettuali dimenticati o mai ricordati: Arrigo Davila, Mario Menghini, Francesco Lemmi) c’è sempre un’alternativa indipendente o desueta a tutte le forme di contemporaneità mainstream: botteghe di svapo a conduzione familiare, stracolme di boccette di liquido come una volta, strenuamente contrapposte alla supremazia del modello IQOS; veri tabaccai, di cui uno, quello di via Crivellucci, con antiche ricaricabili Omnitel; spacci aziendali di abbazie trappiste inurbate (quella delle Tre Fontane); perfino forme di resistenza al tiramisù egemonico, ormai in franchising, di Pompi, destinate a partigiani della pasticceria che, a sole tre fermate di metro dalla latteria di via Albalonga dove tutto cominciò, non conoscono altro semifreddo all’infuori di Billy’s Ice (accanto al McDonald’s, perché non si può vincere sempre). Anche gli alimentari-frutteria di zona sono indie, ovvero a trazione italiana: bangla ante litteram. Sono gli ultimi della città, e sopravvivono grazie allo straordinario attaccamento del loro partitario clienti, che spera non solo di ritrovare sempre la stessa marca di dentifricio, da trent’anni, ma anche di piazzarci, un giorno, il figlio laureato in comunicazione.
Alcuni camerini di Colli Albani sarebbero il potenziale guardaroba di intere stagioni di serie tv in costume primi anni ’90, come Stranger Things se, invece che in Indiana, fosse girato a Roma Sud. In via Santa Maria Ausiliatrice c’è “A piedi nudi”, negozio di sole pantofole, manifesto merceologico di zona. Accanto c’è un altro negozio: “Zelide”, simbiotico rispetto al primo, che non vende altro che pigiami. Un paio di De Fonseca in giacenza è ammirato e ricercato come, altrove, sono le ultime Nike Air Max. Colli Albani è la giacenza di magazzino, tutta da valorizzare, di una Roma ormai ridotta drammaticamente al conto vendita, per colpa dell’orrore che ha dell’invenduto.
La vera negazione di Colli Albani non è il centro commerciale, di cui del resto possiede un’interessante variante (l’Happio, vero mall di vicinato), ma l’e-commerce. L’e-commerce è quella cosa che trasforma un colpo di tosse, mentre sei impegnato in una call su Skype, in un banner erogato dall’altra parte dell’oceano, pronto a suggerirci l’acquisto compulsivo di un flacone di Bisolvon. A Colli Albani anche la tecnologia si consegna nel cestino di una Graziella. Le maggiori soddisfazioni, in questo senso, le danno due settori che sono, in genere, particolarmente inconciliabili: la cartolibreria e l’informatica. A Colli Albani, invece, vivono in simbiosi: ogni volta che emerge un limite di una, ecco l’altra che viene in soccorso, e viceversa.
In un’epoca in cui le app più scaricate sono libri digitali da colorare per adulti, le cartolerie di zona hanno il coraggio di esporre in vetrina albi da penna magica, e transano ancora linee di prodotti dai nomi poco usati: trasferelli e decalcomanie. Tenutarie in camice bianco trafficano carta da lettere e buste come se non ci fosse stato un domani; e, se l’occasionale fax in uscita è un evento, quello in entrata — anche conto terzi — è un’occasione di festa, attorno alla quale raccogliersi come negli anni ‘50 davanti ai primi televisori, coi bambini estasiati davanti alla ricevuta che esce sfrigolando dalla macchina e i padri di famiglia che leggono ad alta voce il contenuto dei fogli.
Sving Computer è il negozio di informatica della porta VGA accanto. Fin dagli esordi di Windows vive e formatta insieme a noi. È il regno dell’IT vintage: le prese SCART migliori di Roma vengono impacchettate in un cartoccio fumante di silicio, croccanti come se fossero state appena sfornate, e le più fresche si riconoscono dalla lucentezza dei dentini. Amazon chi?
In queste vie non ci troverete una Clinica iPhone, come in un quartiere qualunque, ma “Phone’s Anatomy”, dove gli addetti alle riparazioni, pur vedendovi arrivare trafelati con un iPhone XS tra la vita e la morte, per prima cosa si informeranno delle condizioni di salute vostre e della famiglia. Le multinazionali di cosmetica tipo Sephora non attecchiscono in questo tratto di via Appia Nuova e il racket dei campioncini Chanel, nelle profumerie locali, è gestito da una gang di ottantenni che ama scherzare su tutto, ma non sulla scontistica in materia di prodotti Roger & Gallet. Dalle vetrine di Elettromax, nel promuovere alcuni modelli di cuffie Beats vintage (prima della cessione ad Apple) si rassicura il passante, mediante cartoncino colorato e copy in nostalgico stampatello, che sono effettivamente quelle con filo, come se fosse di nuovo una feature. In un mondo ormai totalmente wireless, in cui anche l’aspirapolvere non ha più legami con le pareti di casa, è rassicurante realizzare che sopravvivano mondi e mercati in cui la cavetteria e i vincoli hanno ancora un senso e una direzione, seppure ostinata e contraria.
A Colli Albani si corrono, in genere, pochi rischi. Per capirci, una delle cose più emozionanti che possano capitarvi è imbattervi, all’uscita dalla messa di San Gaspare del Bufalo (progetto di Pier Luigi Nervi, quello del Palanervi, cosa che la rende la Chiesanervi) in uno di quegli inquietanti rospi da giardino, illuminati e truccati alla Tim Burton, che rendono il Funny Park Garden, mini-parco giochi utilizzato principalmente per festicciole di compleanno, uno dei luoghi più dark di Roma Sud. Ma da nessuna parte si è al sicuro come nel giardino intitolato al Beato Tommaso Maria Fusco, sulle cui panchine generazioni di collialbanesi svernano o prendono il sole, si procurano raffreddori o guariscono dall’ansia, sotto la duplice protezione dell’insegna luminosa del commissariato di Polizia e dei led dell’aureola del relativo beato. Da queste panchine si guarda al futuro con teoria ma soprattutto pratica della relatività: come se potesse essere un altro passato.