Quel ramo della Tuscolana, che volge a Frascati, tra due fermate della metro A (Lucio Sestio e Subaugusta), è uno dei luoghi romani più stravaganti in cui possiate capitare. Siccome è costituito per una metà dal ventiquattresimo quartiere della Capitale — don Bosco — e per un’altra metà dall’Appio Claudio — il venticinquesimo — per comodità lo chiameremo semplicemente don Claudio.
Le due zone, disposte in buona simmetria da un lato e dall’altro della Tuscolana, sono separate solo sulla carta e sembrano passare le giornate a pomiciare, in barba ai divieti parentali (soprattutto da parte della famiglia di Appio Claudio), lungo la via Consolare che le attraversa come una chiusura lampo, e che tendono a lasciare sempre aperta, con la doppia fila di palazzoni che le fanno da dentini. Detto questo, la coppia ha le sue divergenze ma, come tutte le unioni di successo, non ne fa un problema; anzi, nel tempo è riuscita a trarre il meglio da questo strampalato fidanzamento, combinato mentre Roma guardava da un’altra parte.
Don Bosco va molto fiero delle sue origini popolari, dei suoi alimentari settuagenari, della vicinanza al centro commerciale di Cinecittà e della lontananza da qualunque cartello stradale con la direzione per l’Auditorium; ma anche dei suoi improvvisi picchi di ricercatezza: dal negozio di dischi e strumenti musicali, col vasto assortimento di ukulele che aspettano da chissà quanti lustri l’acquirente giusto, a Moruzzi, il punto di riferimento per le monete antiche, che attendono da ancora più tempo. Ha strade del tutto foodie e strade del tutto degrado, soddisfacendo così più hashtag e più nicchie di Instagramers. Via Calpurnio Fiamma e via Flavio Stilicone fanno invidia a Ostiense per come sanno rimestare il sacro e il profano della gastronomia: i supplì alle rigaglie di pollo e riso Carnaroli di Moma e il gusto mascarpone e Nutella della gelateria Ping Pong; una pinseria chiamata “Queen del Molise” e la macelleria Liberati, la cappella bovina di Roma.
Certo, don Bosco sarà un po’ meno orgoglioso dei cassonetti bruciati fino a mostrare il contenuto indigesto delle pance di plastica, e mai sostituiti; degli scarabocchi ovunque, coperti, quando va bene, solo dalla robaccia sulle bancarelle; dei battesimi e dei funerali della famiglia Casamonica. Per fortuna, il quartiere è ancora forte della basilica di San Giovanni Bosco, la sua San Pietro geometricamente modificata, quasi tutta quadrata anziché rotonda (è circolare solo la cupola: la seconda più grande di Roma) e il cui colonnato è un immenso quadriportico fatto di condomìni uniti tra loro, lungo i quali, al posto dei centoquaranta santi che benedicono la piazza vaticana, migliaia di persone mangiano, dormono, sognano.
L’Appio Claudio è tradizionalmente il più chic dei due quartieri, anche per la sua vicinanza a uno dei parchi urbani più belli di Roma: quello degli Acquedotti, in cui si incrociano ben sette condotte d’acqua sopraelevate o sotterranee di epoca romana e papale, e su cui insistono decine e decine di palazzotti e villini, molti dei quali sembrano progettati da archistar e abitati solo da podisti, tutti a percorrerne le strade e i vialetti su e giù, dal primo mattino a notte avanzata, frettolosi e accessoriati come bianconigli con l’Apple Watch al posto della cipolla. La chiesa di San Policarpo, confine tra il quartiere e il parco, arriva alla raffinatezza estrema di disporre di una Via Crucis che, da sola, vale una visita: è interamente realizzata con chiodi di varie misure, deformati da una mano geniale fino a comporre tutte le scene necessarie. Le siepi perfette di piazza Aruleno Celio Sabino sembrano troppo potate per essere vere, e infatti sono opera di giardinieri reclutati privatamente dai proprietari dei palazzi intorno.
Don Claudio è una periferia fuori dal comune, che ha deciso di essere centro, dichiarando la sua totale indipendenza dalla topografia. Il suo manifesto potrebbe essere il centro non esiste, oppure, meglio: il centro siamo noi, se abbiamo pagato Netflix e il condizionatore inverter funziona. È un’intera città da più di centomila abitanti, funzionalissima nella sua assoluta disfunzionalità, perché tutte le sue parti essenziali ci sono, anche se appaiono dislocate un po’ alla rinfusa: il suburbio a don Bosco; il centro moderno, coi negozi più importanti, gli studi professionali, gli uffici, sulla Tuscolana; la zona residenziale ad Appio Claudio. Con le sue vie dritte e i suoi incroci perfetti, a fronte della difformità dei tipi umani, don Claudio sembra un modellino di Manhattan costruito da un bambino colpito da una grave penuria di pezzi Lego, i cui grattacieli sono alti al massimo 8 piani, con un Central Park iniziato da Caligola, messo di lato.
La via Tuscolana, a quest’altezza, sembra la scenografia di un western post-pasoliniano, perché appena uno mette il naso oltre le facciate e le insegne ci sono i Colli Albani che fanno capolino, a ricordargli che questa non è che sia esattamente la verità. È straordinaria la capacità che ha don Claudio di simulare le angustie tipiche di una downtown in un quartiere spazioso, rettifilo, che ha abdicato ad alcuni dei vantaggi della periferia, avocando a sé tutti i difetti del centro, per amore di realismo.
Le vetrine dei franchising che soddisfano bisogni più impellenti – come l’epilazione definitiva o il Kit Kat gusto fragola – negli ultimi anni hanno preso il posto dei vecchi negozi, che hanno trovato rifugio nelle traverse interne, dove è possibile imbattersi ancora ancora in mercerie dal volto umano e salumerie dal sapore antico.
Possedere una macchina qui è ancora decisivo. Non si contano le officine, i carrozzieri, i gommisti, gli oscuratori di vetri e gli sbiancatori di marmitte, diffusi in ogni dove, come avvocati a Prati o scarpari di seconda mano a Monti. Insieme, costituiscono un vero e proprio museo diffuso della civiltà automobilistica: stanno lì a ricordarci, anche all’inizio del 2019, a car sharing giunto ormai alla sua maturità, l’importanza della macchina di proprietà in un quartiere pianeggiante. A tante auto corrispondono innumerevoli garage, a volte così in concorrenza tra loro che sono costretti, per farsi notare, a ricorrere a mezzi non propriamente nelle corde dei loro titolari, come la cortesia o la creatività. Qualche volta i risultati sono degni di nota, come nel caso dell’autorimessa “Albachiara”, che si segnala per un graffito che pare la locandina di un episodio crossover di Hazzard ambientato in provincia di Modena, in cui a un certo punto si scopre che a Daisy Duke piace studiare, e non se ne deve vergognare.
La sola cosa che a don Claudio si trucca più delle Toyota sono le signore e le relative figlie. E certi coupé elaboratissimi, forse, non sono meno a disagio delle preadolescenti già soggette a colpi di sole o a ciglia finte. Come in centro, si parcheggia molto e male, anche se qui ci sarebbe lo spazio per farlo meglio. Su viale Giulio Agricola sembrano essersi teletrasportati tutti i bar che hanno chiuso o stanno chiudendo ai Parioli. Il bar più fighetti dell’Appio Claudio non sarebbero gli stessi senza la doppia fila perenne, che è quasi incentivata, perché è una pubblicità gratuita migliore del passaparola o delle file. E poi fa tanto piazza Euclide.
I ragazzi e le ragazze di don Claudio, grazie alla quantità e alla qualità di questi negozi, riescono così a sfoggiare gli stessi brand-divisa dei loro coetanei del centro, anche se alle volte capita, per qualche problema logistico, che vestano un po’ più del dovuto alla penultima moda, saltando un anno. Le numerose barberie da hipster, veri e propri trend a scoppio ritardato, sono intempestive quasi come rivendite di sigarette elettroniche con tabacco liquido. Nel Quadraro della moda, di cui via Murena è la via Montenapoleone, con grande soddisfazione dei giocatori di polo locali, vanno ancora fortissimo marchi come La Martina e Ralph Lauren. Chissà se qualche volta una nonna di famiglia, che da bambina annoverava tra le feste più liete le corse dei cavalli da baroccino intorno al monumento ai caduti, osservando gli outfit dei nipoti, in un attimo di lucida follia, non ridacchia, in cuor suo, pensando a quello che combinerebbe loro, se avesse ancora nelle braccia la forza di un tempo, e se i negozi, oltre alle maglie da polo, vendessero anche qualche relativa mazza.