Il quartiere di Roma che sembra ripartire per primo è il minuscolo Salario, il più piccolo e regolare corpo della città. Paffuto nella forma e grazioso d’aspetto il Salario è però dotato di un apparato digerente straordinario, un po’ come uno di quei criceti che, pur essendo di dimensioni trascurabili, hanno i numeri (tra cui due stomaci) per un metabolismo eccezionale, così da mandare giù anche i propri escrementi, i propri figli, eventualmente una vita trascorsa a fare la ruota, girare intorno alla felicità. Per gli abitanti del Salario, in altre parole, Roma è quella cosa che succede mentre sono intenti a godersi la loro digestione, noncuranti del succedersi di epoche e pandemie.
Questo quartiere non si è affannato particolarmente nel corso di alcuna fase del COVID-19. Forse perché da parecchio prima se ne fregava già del resto del mondo (in generale) e di Roma (in particolare), chiuso nella sua enclave tra Villa Borghese e i suoi alimentari coi pecorini a numero chiuso, che non hanno conosciuto l’ansia della distanza, perché si distanziavano dalla realtà anche senza applicare un DPCM.
A qualunque ora di un giorno feriale molti vi passeggiano col cane, qualcuno fuma una vera sigaretta, qualcuno va al lavoro, qualcuno va a giocare a tennis e la faccenda finisce lì, come in un film sull’origin story di un romano odierno in cui si ripercorrano gli errori che, da qualche parte, questo tizio deve aver pur commesso per ritrovarsi a scommettere sugli incontri tra gabbiani e parcheggiatori abusivi a bordo Tevere.
Roma è così ampia e varia che ci trovi strade o rioni a tema, come la Piccola Londra del Flaminio o la città giardino della Garbatella. Il Salario è a tema ceto medio, proprio quello che ormai è sparito ovunque nel Paese; quasi una riserva che i conquistatori di tutte le altre parti della Capitale hanno concesso ai nativi della zona perché ci vivessero conservando i propri costumi, in cambio del diritto di passaggio, ogni tanto, per una colazione da Gruè o per cercare un monolocale alla figliola che va alla Luiss ma che di prendere casa a piazza Ungheria, così vicina a mamma, non ne voleva proprio sapere.
È di fatto un quartiere di almeno cinquant’anni fa che si è imboscato nella Roma moderna e che, per difendersi da essa, ha rubato al mondo animale la tattica della tanatosi: fingersi morti o, quantomeno, passati di moda.
Da una manciata di generazioni qui si tramandano posti auto in cortile e conti di salsamenterie. Le traverse di via Po che formano la parte più integralista del Salario (tra l’incrocio con via Salaria e piazza Buenos Aires) sono altrettante Diagon Alley di Roma che, se conosci il retrobottega giusto, ti ammettono nella dimensione alternativa, per moltissimi oggetto di letteratura fantasy, della borghesia, i cui maghi e streghe sono proprietari di immobili su cui sanno eseguire incantesimi come frazionamenti (Sectum atticum) o riscossione di affitti a 16 euro al metro quadro (Expecto pigionem) e i cui babbani sono tutti quelli che non credono nei valori catastali.
Non ci sono discoteche ma oleoteche (il Piper è oltre il confine con il quartiere Trieste e il massimo atto di mondanità salarino è sorseggiare un Lemoncocco nello storico chioschetto). Non ci sono bangla, ma ferramenta-bazar. Nel village tra le vie Adda, Simeto, Basento, Tirso e Metauro un tabaccaio è guardato con sospetto perché ancora nuovo, essendosi stabilito qui negli anni Settanta. Nei bar la cliente fissa, che passa la mattina a parlare con la cassiera, si è vestita di tutto punto solo per quell’occasione. Al civico 102 c’è il palazzo balneare di via Po, quello che sembra un lido di Forte dei marmi verticale. Ovunque ci sono ottici sontuosi come gioiellerie e gioiellerie accoglienti come mercerie.
Il resto dei fabbisogni dell’area è soddisfatto dall’asse di ferro tra i due Bartocci, Sport e Gelati: pistacchiosa e Fred Perry, Bartoccioso e Barbour. Nelle vetrine di Bartocci Sport si segnalano i poster di Niki Lauda (ancora in Ferrari, ancora al volante) e l’avviso di consegna a domicilio per Lacoste urgenti.
Il segreto del Salario è che è, appunto, piuttosto segreto. I suoi confini sono sì precisissimi e drittissimi (via Salaria, Corso Italia, viale Regina Margherita, via Nomentana) ma, siccome nessuno sa che esistono, possono tanto più essere ignorati e dunque, involontariamente, rispettati. Di fatto il Salario è un quartiere che non ha nome se non negli stradari umidicci nei portaoggetti delle Vespe in riparazione dal Maestro Danilo di Via Basento e per qualche nerd della toponomastica. Al contrario di molti altri quartieri romani, dalle frontiere perennemente cangianti, in base alla convenienza di chi abiti al di qua o al di là di una certa linea di demarcazione, il Salario non è definito per contrasto con altre zone, ma per analogia con sé stesso. Per questo il Salario è molto più che un Parioli coi negozi o un Trieste con la gente.
Non esiste un orgoglio salarista (sentimento che, a Roma, alberga anche per gli inquilini di fossi, paludi o dell’Olgiata); né forme di appartenenza al contrario: come quella dei pariolini che tengono a distinguersi dai Flaminios, come gli abitanti dei Parioli amano chiamare gli indigeni del quartiere a loro storicamente soggetto sia orograficamente che socialmente. Il salarino non prova risentimento verso le popolazioni del Trieste o del Nomentano che, convinti che le dimensioni contino, tendono ad annetterlo; né invidia per quelle dei Parioli, che lo snobbano, cercando, al contrario, di prenderne il più possibile le distanze, forse disturbate dall’elevato numero di pedoni o di attività commerciali dal volto umano.
Vampirescamente, il salarino tipico — che si fregia di non conoscere sue rappresentazioni letterarie, televisive, cinematografiche o fumettistiche, né tantomeno suoi cantori, caricature o guide — non si riflette negli specchi e non esce in foto, particolarmente su Instagram. In genere vale la regola per cui se non sai di abitare al Salario è probabile che tu vi sia almeno domiciliato. Essere del Salario è una faccenda zen: solo se non ci pensi troppo è probabile che tu ci sia dentro.
Se c’è una cosa che non vedrete mai, al Salario, è qualcuno che faccia il turista nel proprio quartiere. Li vedi camminare, i salarini anziani e giovani — non fa troppa differenza — con le dita infilate nell’impugnatura di cartone di una scatola di Natalizi — colore di Tiffany, ma con dentro una crostata di fragoline — beati come modelli per la copertina di una playlist di Spotify intitolata Chilled materialism o Have a Great Conventional Day!.
Per i suddetti motivi la mascotte del Salario non è, come accade in altre zone, uno dei Cesaroni o il ministro di turno, ma Lucilio Peto, generale del Genio e comandante della cavalleria di Giulio Cesare, sepolto al numero 125 di via Salaria. È il ritratto del salarino modello. Non lo va a trovare nessuno, da decenni, anche se lui ha un’ampia metratura a disposizione, che è riuscito, tutto sommato con pochi sacrifici, a non dividere con alcun parente. Mentre i suoi colleghi intestatari di mausoleo hanno visto costruirsi sopra la testa fortezze papaline (Adriano) o parrocchie (Costanza), il vecchio Peto ha continuato bellamente a farsi i sepolcri suoi, dimenticato sotto una coltre di confortevolissimi strati di erbacce.
Qui niente è opulento, niente è dimesso. Tutto è diseguale: non è un caso che la Polizia sia rappresentata solo dalla Compagnia d’Onore, il reparto di rappresentanza, e per avere un vero Commissariato bisogna arrivare quasi oltre piazza Verdi, pieni Parioli. Gli habitué di via Basento possono affermare “il mio cinese è differente”: è Lin, che ti mostra ogni sera, verso le sette, mentre il resto del mondo è intento a fare l’aperitivo alla milanese, lo spettacolo dei suoi lavoranti a maniche rimboccate intenti a fare ravioli a mano, attraverso le vetrine.
C’è però una parte del Salario che viene aperta al pubblico. È quella delle vie intorno al mercato di piazza Alessandria, il Salario “basso”.
Via Savoia separa di netto le due anime del quartiere. Non è un caso che sia in assoluto la via più salarista, l’ultimo vagito di ortodossia prima di aprire almeno qualche finestra alla contemporaneità. Le facciate dei suoi palazzi, fra cui quello di Marcello Piacentini, assecondano a ogni curva l’andamento della via, in un esercizio di stile urbanistico che è l’opposto esatto di quello che ha sempre fatto e continua a fare Roma, deformata dai cento, mille interessi e soprusi personali di ogni suo abitante con più potere di un tombino o un architrave.
Le tante aperture gastronomiche della zona tendono a rendere il Salario basso un quartiere dietro le quinte della città; ovvero il quartiere coi posticini di quartiere per i romani senza un vero quartiere (perché l’hanno perso o perché non l’hanno mai avuto). È una Piccola Roma con una vasta gamma di possibilità. Prendete le pizzerie. La più tradizionalista è Disco Volante, sovietica nel menu come una Formula Uno a San Lorenzo, ma coi tovaglioli in stoffa e i camerieri più felpati. La più innovativa è Berberé, anche per le modalità di servizio (pizza già tagliata al centro, in condivisione), che inizialmente aveva creato non poco sgomento nell’animo degli avventori di zona, abituati a disposizioni d’animo ben più belligeranti, in tema di sharing (v. Sectum atticum).
L’ingresso monumentale di Villa Albani spunta tra queste vie come un tempietto classico capitato per caso nel futuro, in mezzo alle terrazze e ai graffiti, marziano come oggi sono quasi tutte le cose veramente belle in questa città in cui tanti sembrano fare a gara a chi la imbruttisce di più, come un tempo si faceva a gara ad avere gli obelischi più lunghi.
Il Salario fa dell’anomalia la sua normalità, a modo suo eroico e matto come un soldato fantasma giapponese che, non sapendo che la guerra è finita, continua a battagliare ancora attaccato alla sua divisa logora e alle sue armi scariche.