C’è un cinese al Quadraro che ha aperto un bar-latteria in via dei Furi, angolo via dei Fulvi. Non è un cinese che sta imparando i segreti del mestiere dal vecchio padrone italiano, dopo averlo rilevato e assunto, o altre distopie per nativi italiani diversamente cosmopoliti. E non è neppure il corrispettivo, fatto bar, del ristorante cinese medio, orientalizzante e spersonalizzante quanto basta. Quel cinese non si pone neppure il problema di avere o no un bar dotato di personalità. Semplicemente, è un romano a cui è capitato di essere cinese e di aprire un bar al Quadraro, entrando nella parte in modo magistrale. Per lui, integrarsi nella società locale è stata una questione pratica e ormai risolta, come imparare a fare un caffè decente, un cappuccino discreto e una buona interpretazione del barista burbero, che maltratta il giusto i clienti abituali, e mostra tutta l’indifferenza possibile verso quelli destinati a restare occasionali. Una delle prime lezioni che apprendi camminando per queste strade, intitolate alle famiglie nobili dell’antica Roma, è che chi nasce pechinese può tranquillamente morire Quadraro.
Il Quadraro è l’ultimo quartiere di Roma a conservare una vocazione da quartiere. Qui non ci si trasferisce in cerca di fortuna, ma nella speranza di sfuggirle. Rara periferia che non ha bisogno di diventare un altro centro per risultare desiderabile, il Quadraro vive il paradosso di essere una zona di confine, ma senza limiti; al tempo stesso del tutto identitaria e del tutto personalizzabile; autentica e recitata; romanamente multietnica; sfuggente eppure accogliente, sempre che non vi facciate prendere troppo la mano dalle ristrutturazioni o dalla street art. In altre parole, il very best delle contraddizioni di Roma che fanno sperare ancora nel suo futuro. La sua più grande attrattiva sta nel concedere a chi cerca di afferrarne il senso — nel ricordo di una storia gloriosa o inventandosene una nuova — quel margine d’errore chiamato immaginazione.
Dopo un’infanzia vissuta pericolosamente a combattere i tedeschi — e nel modo più ribelle e coraggioso che Roma abbia conosciuto — il Quadraro ha trascorso un’adolescenza post-bellica accanto alle stelle del cinema, tra l’acquedotto Felice e il resto del mondo, sapendo cogliere l’occasione di trasformarsi, da set della Resistenza, nel grande backstage di Cinecittà. Senza mai incappare nelle manie di protagonismo di chi sta davanti alla cinepresa, ma sempre orgogliosamente dietro, gli abitanti del Quadraro hanno saputo mostrare quel distacco nei confronti della fama e della fame che hanno solo le maestranze del Neorealismo, o chi è riuscito a tornare vivo a casa dopo il rastrellamento del ‘44. Oggi, questa parte di Roma non può che vivere le grandi trasformazioni in atto in un modo tutto suo.
Prendete il Gros Sacoph, unico supermercato orgogliosamente aperto h24 del Quadraro, un accenno quasi futuristico, insieme al complesso di uffici alle spalle, posto in un minuscolo palazzetto di vetro (forse il più basso grattacielo del mondo). La rosa dei venti intarsiata sul marciapiede tra le due costruzioni, che vi dà il benvenuto all’arrivo alla stazione di Porta Furba, è il perfetto manifesto poetico del Quadraro di oggi. Un luogo dove tutti riescono a sviluppare la loro personalità (insieme a un paio di riserva) non ha bisogno di una walk of fame più lunga di una sola stella a molte punte, qualcuna più lunga, qualcuna più corta, e lasciata in bianco, perché ognuno possa compilarla mentalmente col suo nome, quali che siano i caratteri in cui si scrive. Il volantino con gli sconti del Sacoph è la stele di Rosetta di questa Babele dalle mille lingue e una grande passione in comune: le offerte speciali.
Per l’irresistibile forza attrattiva di questo modello, misurare l’area del Quadraro può essere un esercizio di geometria più difficile del previsto. Chiunque abbia casa in un punto X tra il discesone dopo Arco di Travertino e il capolinea di Anagnina — praticamente tutti i popoli delle fermate della metro A che si trovano nel mezzo — più o meno legittimamente, più o meno idealmente, rivendicano il domicilio nel loro pezzetto di Quadraro, da strappare al resto della città.
Ormai cominciano a farci un pensiero anche fuori dal Tuscolano. Dove non arriva Google Maps, arriva il cuore. Ci sono madri di famiglia che abitano in piena Tor Vergata. Eppure, ogni fine settimana, hanno l’ardire, telefonando al collega di San Giovanni, di insistere: “E dai, vieni a trovarmi qualche volta a casa mia al Quadraro, si sta tanto bene”. L’appuntamento sarà irrimediabilmente a Porta Furba e casa loro, 10 chilometri più a est, un perenne cantiere.
Detto questo, c’è Quadraro e Quadraro. Il Quadraro Vecchio, imprendibile e ineffabile, vince sempre a rimpiattino con il resto della città intorno, a partire proprio dal Quadraro Nuovo. Fece bene lo street artist Nicola Alessandrini, in piazza dei Tribuni, a rappresentare il Quadraro Vecchio come un topolino che prova a sfuggire al serpentone che, un tempo, erano i nazifascisti e oggi è Roma, che prova ad avvolgerlo nelle sue spire. Infatti, come ai tempi del “nido di vespe” dipinto da Lucamaleonte in via del Monte del Grano, la sfida del Quadraro è ancora tra grande e piccolo, Davide contro Golia.
Il Vecchio si dibatte e non molla mai, si divincola; per non farsi notare invecchia ancora di più, rinunciando magari a un piano, ma non si piega. Si interrompe e poi riprende, con avamposti di Quadraro Vecchio che si spingono fin dentro le braccia del Nuovo, non si sa se per una manovra diversiva o solo per vedere se l’altro stava attento; e parti di Nuovo che hanno fatto breccia nel Vecchio, come le gigantografie Vodafone, grandi quando l’intero fianco di un palazzo da 8 piani, che spuntano tra una baracca e un murale, entrambi site specific. I due Quadrari sono come gli alti e i bassi di un equalizzatore impazzito. Tra le altre tipologie abitative notevoli del Quadraro Vecchio ci sono: la casa delle streghe, casa di Pollicino, capanno senza porta, ma con micro giardino all’italiana. Cancellate imponenti da villone possono rivelare, tra le sbarre, un pezzo di campagna abbandonata o la poesia post-montaliana di un muro giallo limone, lasciato libero di non delimitare niente.
Via Cartagine, al Quadraro Nuovo, è talmente cupa e demoralizzante che sembra l’abbiano chiamata così per perpetrare, duemila anni dopo, l’umiliazione di Asdrubale per mano di Scipione Emiliano. Poco più lontano, Largo Spartaco, con il suo street food denominato Spartagnam, evidentemente, segue una simile logica di sberleffo all’avversario: nel caso allo schiavo trace non fosse bastata la sconfitta sul campo, lì continua il supplizio delle piadine arrotolate in suo nome. Proprio qui, delle centinaia di nano-balconi tutti uguali, che si moltiplicano a perdita d’occhio, uno si staglia sugli altri. Vi è installata una madonnina, come un motore esterno Daikin, con il volto rivolto verso il largo, precaria ma altrettanto fondamentale, rispetto a un condizionatore, per migliorare la qualità della vita. E non solo all’interno, perché questa edicola votiva pensile, confinata in quei privatissimi centimetri quadri, non ha rinunciato per questo a svolgere la sua funzione pubblica.
Gli stemmi araldici atrofici di certi palazzetti anni ‘30, che sopravvivono soprattutto vicino a piazza del Quadraretto, non hanno bisogno neanche di mostrare la data di fondazione, ma sono lasciati vuoti, come la stella del Sacoph: patenti di nobiltà anonima, simboleggiano l’orgoglio di potersi costruire una facciata così, insieme a una ventina di altre famiglie siciliane, pugliesi, calabresi, senza essere nessuno e soprattutto senza, per questo, diventarlo.
Sono i negozi a provare a fare un po’ ordine in tutto questo, da una parte e dall’altra della Tuscolana. Molti sembrano progettati da un bambino a cui è stato assegnato il seguente compito a casa: disegna il tuo quartiere. A ciascuno è data una funzione precisa, grazie a un’insegna luminosa e autoesplicativa: Libri: nuovi e usati, Latticini, Farmacia, Ambulatorio, Carrozzeria. Parole forti in una città in cui le ragioni sociali sono perlopiù mutanti. Al Quadraro non troverete fienili patrizi convertiti in supermercati, né lanifici trasformati, per mezzo di punizioni omeriche, in porcai. Qui non ci sono norcinerie con cucina, ma norcinerie da una parte e cucine dall’altra. Esercizi commerciali che hanno il coraggio di desiderare di essere solamente quello che dichiarano sulla facciata, così come del resto è tutto il quartiere. L’estremo è rappresentato dalla vecchia stazione di posta ancora intatta, in piazza dei Tribuni: anche se oggi è un luogo facente funzione di ristopub, è ancora di fatto una stazione di posta, sulla strada tra Nuovo e Vecchio Quadraro, tra la libreria Mondadori e le osterie.
Come accade per molte altre metriche, il bello sta nelle licenze poetiche. Il negozio di strumenti musicali di riferimento della zona non si chiama Musica, ma Rock & Pop. Il Maestro Gino Scarano di via dei Quintili 63, figlio del Gargano, oltre che essere stato, dai 7 anni in poi, il barbiere di Totò, di Fellini e di Mastroianni, ha pure inciso 1000 cover tra canzone romana e napoletana, Sinatra e Aznavour. Un’edicola di viale dei Consoli si chiama ancora, da decenni, in modo sagace quanto anacronistico, “Ultime notizie”.
A proposito: è una pura coincidenza odonomastica se questo quartiere sta vivendo gli sgomberi di questi giorni da protagonista, almeno sui titoli dei giornali. All’altezza di via del Quadraro dove i seicento uomini della Polizia di Roma Capitale sono andati a liberare le ville dei Casamonica — posando poi accanto a leopardi di porcellana e cavallini rampanti placcati oro, come se fossero trofei di caccia — sono già parecchi isolati che di Quadraro non c’è neanche l’ombra.