Non avrei mai pensato di finire a Ibiza ad un concerto degli Alphaville, la band che negli Anni Ottanta ci ha regalato due perle immortali come Forever Young e Big in Japan. Né tantomeno che una certa mitologia del passato potesse attecchire nella città dei club e della musica elettronica. Fare il giornalista a Rolling Stone, oltre a farmi ricevere uno spropositato numero di commenti e insulti personali per ogni qualsivoglia mia libera opinione, ha anche dei vantaggi come volare a Ibiza per provare un hotel cinque stelle in cui si esibiranno gli Alphaville. Anche se conoscete il nostro rapporto con qualsiasi riferimento al pentastellato.
E qui accetto commenti e insulti, please be my guest.
L’Hard Rock Hotel di Ibiza è un complesso imponente di tre strutture da cinquecento stanze, due piscine, arena concerti, spiaggia privata e – ancora – quattro ristoranti, un negozio di souvenir, piscina, spa, rooftop bar. E sicuramente qualche altro luogo di cui mi sono dimenticato o che non ho fatto in tempo a scoprire. Dentro ti ci potresti perdere e sembra questo il mood degli energumeni tutto muscoli che mi passano continuamente a fianco, apparentemente senza meta, facendomi vergognare dell’aver rifiutato l’ennesimo sconto per l’iscrizione in palestra. Sebbene abbia seguito il programma di Bruno Barbieri con ragguardevole attenzione, non sono un abitudinario dei grandi hotel e per questo rimango scioccato di come questa vita lussuosissima possa essere scandita da due sole parole: cibo e acqua. Si mangia sempre: colazione, pranzo, merenda, aperitivo, cena, più tutti gli spuntini possibili (anche in camera, per benvenuto, trovo cioccolatini e pasticcini). E si sta sempre in acqua, che sia mare, spa, piscina, doccia, jacuzzi. Tipo che il pomeriggio mi tuffo nel mare di Playa d’en Bossa e la sera mangio al Tatel, il ristorante cui soci hanno nomi vagamente conosciuti come Cristiano Ronaldo, Rafa Nadal e Pau Gasol. Come dire: si sta da paura. Potrei abituarmici subito.
Nella suite presidenziale c’è una chitarra di David Bowie, nella mia stanza no, ma con un deposito di 100€ mi portano in camera una Fender da suonare privatamente. Perché l’Hard Rock Hotel, come da serie Hard Rock, è colmo di memorabilia. Fa strano camminare in un hotel ibizenco di Playa d’en Bossa, la lingua di spiaggia coi locali più celebri della isla, ed essere circondati da chitarre di Frank Zappa, foto di John Lennon e abiti di scena di Elton John e Britney Spears; non proprio il mood per cui è riconosciuta Ibiza e per cui venni in vacanza nei miei anni d’oro. Il tour delle memorabilia lo faccio con Carlos che di lavoro fa il vibe manager. Ecco, lui ha un lavoro più assurdo del mio: è pagato per far si che i clienti siano sempre presi bene. Di base, è colui a capo della presa bene. Facessi quel lavoro non ho idea di come potrei spiegarlo a mia nonna. La cosa più strana è scoprire poi che l’artista preferito di Carlos è Marilyn Manson; una scelta particolare per il nostro vibe manager.
L’hotel è parte del Palladium Hotel Group, gruppo alberghiero spagnolo che a Ibiza, tra le varie attività, possiede anche l’Ushuaïa, l’hotel/discoteca che dal 2011 è diventato il riferimento per il clubbing all’aria aperta, soprattutto quello di stampo EDM. Non a caso ci troverete eventi con dj set di Martin Garrix e David Guetta, in poche parole colori fluo e ragazzini in estasi. Io ci finisco per la Ibiza Fashion Week che non è proprio lo stesso mood, ma che mi basta per intravedere la potenza di un impero. Il main event delle mie due notti ibizenche è però la serata che l’Hard Rock ospita ogni venerdì durante la stagione estiva: Children of the 80’s. Il nome non lascia scampo, quasi quanto gli ospiti della serata di apertura: gli Alphaville.
Ok, vi dipingo la scena assurda in cui mi ritrovo fiondato: nello spazio arena dell’hotel ci sono 3-4 mila persone (per gli esterni all’hotel l’entrata costa 18€) che ballano felicemente un mix di eurodance, rock, pop che dagli anni Settanta arriva ai primi Duemila, intervallato da show di breakdance, epic saxophone, coreografie. È tutto talmente riconoscibile e esplicito che il pubblico non può che impazzire. Si passa dalle canzoni di Grease a Dragostea Din Tei, dagli Eiffel 65 ai Queen, giusto per segnalare alcuni passaggi in consolle. Non capisco se questo è l’inferno o una strana forma di purgatorio musicale che bisogna affrontare per liberarsi nel cielo, ma sta di fatto che quando parte Forever Young non ce ne è più per nessuno: braccialetti fluo in aria, cori che dal pubblico si alzano stonati da paura, abbracci sentiti tra estranei. Poco importa che degli Alphaville originali rimanga solamente più il cantante Marian Gold, privato oramai di quella capigliatura incredibile che lo rese un sex symbol mondiale.
Quello che rimane degli anni ’80 è una sensazione, un feeling, una nostalgia. E poco importa se a presentarla non è più un aitante giovane scapigliato, ma un robusto signore di mezza età. Al pubblico sembra importare ben poco, l’importante è tornare a quei tempi, a quel mood. E il piano dell’Hard Rock Hotel è proprio quello: creare una mitologia di lusso del passato, un luogo extratemporale dove il mondo reale è escluso, fuori dalla porta. In epoca di no future, è semplice capire come mai quattromila persone preferiscano rifugiarsi in quel periodo glorioso piuttosto che avventurarsi in nuove e sconosciute avventure. Possiamo biasimare questa voglia di dimenticare tutto quello che c’è attorno a noi nella vita reale anche solo per un attimo?