Peppe da Marsala avrà sì e no quarant’anni: un po’ tarchiato, pancetta da gaudente e slippino da bambino mai cresciuto. Peppe da Marsala ha scommesso la propria dignità in cambio di un cappellino da baseball e dell’incoraggiamento del pubblico. Peppe da Marsala, davanti a circa un centinaio di persone, in mezzo al mare, sotto il ciocco del sole, in dieci secondi dovrà seccarsi due birre medie e gonfiare un palloncino fino a farlo scoppiare. Perché? Non c’è un perché, è il gioco-aperitivo del giorno, che prima di Peppe da Marsala ha visto protagonista Rosario da Salerno, il quale – sempre in dieci secondi – ha dimostrato di riuscire a ingollare due pacchetti di cracker (la sfida di Peppe da Marsala è decisamente più ardimentosa, ma nessuno pare notarlo). David Foster Wallace chiamerebbe quelle a cui ho appena assistito «Simpatiche buffonate in piscina»; io, pur cogliendone il lato comico e cazzone, non riesco a nascondere un profondo imbarazzo che m’impedirà di godere appieno di simili «folli pagliacciate»: ho decisamente troppa puzza sotto il naso per essere una brava crocierista.
Sono stata invitata a una “crociera di lavoro” sulla nave ammiraglia di una nota compagnia italiana, e non sono riuscita a dire di no. «Fai networking e conosci nuovi professionisti a bordo della nave Pinco Pallo»: lo scopo della startup che organizzava il tutto era mettere in contatto freelance, smanettoni digital e remote workers, dimostrando a chiunque che oggi, con una buona connessione, puoi lavorare ovunque tu sia. Pure in mezzo al mare. Pure in crociera. Pure su una specie di città galleggiante di diciotto piani, con piscine, scivoli, campi da basket, bowling, palestra, Spa, mille bar, altrettanti ristoranti, casinò. Agli organizzatori, insomma, è sfuggito un punto fondamentale: ovvio che, per quanto mi riguarda, è possibile fare quel che faccio da casa anche navigando (in senso letterale) davanti a Stromboli. Il problema è avere voglia di farlo comunque quando si hanno talmente tante distrazioni che si rischia di sprofondare in uno sconfortante immobilismo.
Ho accettato l’invito per curiosità sociale, mossa dalla convinzione che – a meno che non me la regalassero – di mia iniziativa in crociera non ci sarei mai andata. Una settimana di viaggio, partendo da Genova con tappe a Malta, Siracusa, Taranto, Civitavecchia e infine Genova; un biglietto che include cabina vista mare con terrazzino; wi-fi; colazioni, pranzi e cene al buffet o presso il ristorante “generalista”. E se lì per lì ho pensato «Va’ che bomba», appena giunta a bordo – dopo due tamponi, infiniti controlli della temperatura e mille chilometri macinati al porto di Genova – ho sentito puzza di fregatura.
Il fatto è che oggi, su una nave da crociera, si è più prigionieri che in tempi pre-Covid. Provo a spiegarmi meglio: diamo per scontato che su una nave da crociera si sia in un certo senso prigionieri, e s’ingannino le lunghe ore di navigazione tra un porto e l’altro intrattenendosi come meglio si crede. Leggi: concedendosi un massaggio, bevendo, tirando giù qualche birillo, allenandosi con un personal trainer, bevendo, mangiando sushi, giocandosi le mutande alla roulette, bevendo, facendosi mettere a posto lo smalto, bevendo, godendosi una succulenta fiorentina, bevendo. Orbene, tutte le attività sopracitate – a meno di non appartenere alla schiera dei ricchi o dei super ricchi, ci torneremo più avanti – sono a pagamento. E non costano affatto poco.
Andare in crociera nel 2021 significa non potersi più muovere in autonomia una volta a terra, il che implica l’acquisto di una delle escursioni organizzate dalla nota compagnia italiana (ovviamente vendute a peso d’oro). In sintesi: appena giunta a bordo la mia carta di credito riceve una serie pressoché infinita di addebiti che altro non sono che i miei personali tentativi di dimenticare d’essere prigioniera insieme a una cinquantina di freelance e milleduecento casi umani (pre-Covid sarebbero stati cinquemila, con Xanax in omaggio) su un mastodonte che inquina come tutte le auto presenti a Milano. Il business delle crociere si fonda su un elementare assunto di base: non guadagniamo col biglietto che ogni cristiano acquista per prenotare la sua cabina, guadagniamo con gli extra che lo stesso cristiano macinerà perché «in queste crociere di massa c’è qualcosa di insopportabilmente triste» (perdonami, DFW), e noi vogliamo scordarcene.
Attivo un pacchetto Easy (ergo, da poveraccia) alla modica cifra di trentadue euro al giorno, per sette giorni, che mi dà diritto a bevande illimitate, purché non costino più di sei euro e mezzo ciascuna. L’ansia da reclusione mi fa commettere un gesto avventato: calcolo che mediamente avrei bevuto almeno cinque birre-cocktail-bicchieri di vino nell’arco di ventiquattr’ore – oltre ad acqua, caffè e varie sciocchezzuole analcoliche – dunque ritengo sia più furbo sfruttare le economie di scala anziché ordinare à la carte. Ovviamente non do un’occhiata preventiva al menu degli alcolici e non mi rendo conto che il vino bianco da sei euro e mezzo è Tavernello e che il gin tonic è fatto col topicida.
«La qualità dei vini è nettamente diminuita», afferma una coppia di ultrasettantenni in gita con me a Matera. Sono alla loro quindicesima crociera. «Il prosecco era molto più buono anni fa; ieri l’abbiamo preso, ma abbiamo dovuto rimandarlo indietro» (per me le bolle sono soltanto franciacorta o champagne, dunque empatizzo). L’impressione dei due esigenti viveur è che, complice il Covid, la nota compagnia italiana si stia approfittando della clientela più affezionata. «Una volta non era così», chiosano insieme ai loro vicini sul pullman, «sta diventando una questione di onestà». Ci rifletto mentre Luigi, la nostra guida, spiega pazientemente l’origine delle chiese rupestri materane e una signora domanda che forma di cristianesimo fosse, quello rupestre. Lui senza riderle in faccia chiarisce il fraintendimento – «No, “rupestre” non è come dire “protestante”» – e io realizzo di nuovo che aveva ragione DFW: «Ho sentito cittadini americani maggiorenni e benestanti che chiedevano all’Ufficio Relazioni con gli Ospiti se per fare snorkeling c’è bisogno di bagnarsi, se il tiro al piattello si fa all’aperto, se l’equipaggio dorme a bordo e a che ora è previsto il buffet di mezzanotte».
La grande differenza tra la mia esperienza e quella di DFW è che la sua crociera – raccontata appunto in Una cosa divertente che non farò mai più – era extralusso ai Caraibi, la mia entry level nel Mediterraneo. Anzi, entry level non è la definizione corretta: la mia crociera era paragonabile al treno di Snowpiercer (il film di Bong Joon-ho, no la serie). Da una parte c’erano i poveri – cioè quelli come me, ammassati in piscina e sottoposti a musica di dubbio gusto a un volume criminale; al gioco-aperitivo; al Tavernello; al gin tonic col topicida e al cibo disgustoso – poi arrivavano i ricchi e infine i super ricchi. A bordo di una crociera non esiste la classe media: ricchi e super ricchi hanno conquistato una porzione di nave dove nessuno urla, nessuno strepita, nessuno rinuncia all’amor proprio in cambio d’un portachiavi. I ricchi e i super ricchi ascoltano i remake chillout di Roxanne o Light My Fire, prendono il sole accoccolati in comodi gazebi, sono silenziosi, felpati e, quando hanno fame, optano per un trancio di ricciola o di salmone alla griglia cucinato appositamente per loro a qualsiasi ora del giorno.
I ricchi e i super ricchi possono spostarsi nelle aree destinate ai poveri; i poveri, par contre, non possono spostarsi nelle aree destinate ai ricchi e ai super ricchi. Ai ricchi e super ricchi è insomma concesso osservare le consuetudini dei poveri tipo turismo nelle favelas: tendono a non mischiarsi, s’appostano sul lato meno assolato della poppa e – riparati dai loro enormi occhiali da sole – scrutano atterriti i corpi ricoperti di tatuaggi brutti e olio solare del discount che fanno a gara per abbrustolirsi. I ricchi e i super ricchi possono immaginare, ma non sapranno mai che significa sedersi a tavola, ordinare un gazpacho e vedersi recapitare una zuppa fredda di pomodoro e cipolla; non dovranno mai accontentarsi di un arrosto di maiale con contorno di broccoli; non faranno mai i conti con l’umiliazione del «Mi spiace signora, l’amaro costa otto euro e non è compreso nel suo pacchetto».
Non è classismo: è la vita. Esattamente come non è razzismo la scelta del personale di bordo, è genetica. Camerieri, barman e in generale coloro che interagiscono col pubblico sono orientali – filippini, tailandesi, cingalesi – in quanto, spiega un manager della nota compagnia italiana, «Hanno più resistenza e più pazienza rispetto al personale dell’Est Europa». Tradotto: se siete delle teste di cazzo e vi comportate in quanto tali, è più probabile che vi spacchi la faccia un cameriere serbo anziché cambogiano. La sicurezza – che c’è, è dappertutto, ma non te ne accorgi – viene invece gestita da ex agenti di una spietatissima agenzia di intelligence che non starò qui a specificare sia perché temo ritorsioni, sia perché, v’assicuro, con loro mica si scherza. Tutto il personale risiede “al ponte 4”, un luogo/non-luogo che io mi sono immaginata come gli alloggi di Johnny, Penny eccetera in Dirty Dancing, un universo parallelo dove, se fossi scesa, avrei conosciuto un ex agente dei servizi segreti che m’avrebbe insegnato a ballare l’Ha’Shual.
Il famigerato ponte 4 è stato largamente mitizzato sia da me medesima, sia dallo sparuto gruppo all’interno del più folto gruppo di freelance in “crociera di lavoro” con cui ho fatto comunella per circa una settimana. Come in un esperimento psicoterapeutico creato ad hoc, ho cercato un cluster di persone a me affini, e mi sono accodata per non soccombere. Dopo il gioco-aperitivo del primo giorno, la mia fiducia nel genere umano era ai minimi storici – e non è che, in condizioni normali, fosse già alta di suo. Mi ero resa conto troppo in fretta e troppo brutalmente che presupposti per essere un buon crocierista sono essenzialmente tre: uno scostamento di circa una decina di chili in più dal proprio peso forma; una passione sfrenata per i tatuaggi brutti, meglio se a tema religioso; una predilezione per la moda cafona (leggi: spandex, loghi giganti, lycra, colori sgargianti, nudità non richieste, aderenze imbarazzanti). In una situazione simile ovviamente si tende a individuare un alleato – o, se si è fortunati, degli alleati – per sentirsi meno soli e per avere delle conferme: no, tu non sei come loro, noi non siamo come loro.
Lo scrive assai più efficacemente ed elegantemente DFW: «Per tutta la settimana, mi sono ritrovato a fare tutto il possibile per distinguermi dal gregge di caproni di cui faccio parte, per discolparmi in qualche modo. (…) Ma naturalmente il mio comportamento di ostentata decolpevolizzazione è motivato da una preoccupazione consapevole e in qualche modo accondiscendente sul modo in cui posso apparire agli occhi degli altri. (…) Una parte della mia diffusa disperazione in questa crociera extralusso è che, a prescindere da come mi comporto, non posso sfuggire dalla mia sostanziale e sgradevole americanità». Che, per me, è la mia sostanziale e sgradevole italianità: per quanto mi sforzassi di rivolgermi a voce bassa all’equipaggio, di camuffarmi dietro un libro di Houellebecq mentre mi abbronzavo, di indossare costumi interi a tinta unita, di ringraziare per ogni minimo servizio, di distanziarmi dai miei compagni d’escursione per le strade di Matera o sulla spiaggia di Siracusa, di nascondere l’adesivo da apporre sulla maglietta per segnalare la mia appartenenza al gruppo dei crocieristi in gita, per quanto mi sforzassi, insomma, non potevo evitare di essere ciò che sembravo vista dall’esterno. Ossia una tizia qualsiasi che decide deliberatamente di salire su un mastodonte e navigare in lungo e in largo per il Mediterraneo. Ossia «un turista rosso in viso, rumoroso, volgare, autoindulgente, narcisista, viziato, esibizionista, vergognoso, disperato e ingordo: l’unica specie al mondo di caprone carnivoro».
Giunta fin qui, non vorrei passasse l’idea che non mi sono divertita e che ho trascorso sette giorni a stare in pena per la mia “immagine pubblica”. In realtà, nonostante la consapevolezza che chiunque mi osservasse da fuori m’avrebbe dato della capra (cosa potevo fare? Stampare una t-shirt «Sono con loro, ma non sono come loro» e indossarla sul ponte 16?), me la sono spassata alla grande. Ho giocato (e vinto) a bowling; mi sono sbronzata a suon di gin tonic col topicida e di Averna gentilmente offerto da chi era più sbronzo di me; ho tamponato la sbronza ingurgitando pizza gommosa; ho ballato leggiadra sulle note di What Is Love e It’s Raining Men; ho riso molto ascoltando alcune barzellette politicamente scorrettissime; ho fatto gli scivoli acquatici con e senza gommoncino; ho gufato la banda degli irriducibili della roulette di mezzanotte; ho amabilmente conversato di alieni, ayahuasca e della possibilità di organizzare team building che prevedessero l’assunzione di acidi; ho pensato che trascorrere dieci ore attraccati al porto di Taranto, con l’ex Ilva sullo sfondo, fosse un pessimo scherzo; dopo dieci ore fermi al porto di Civitavecchia, mi sono ricreduta pure su Taranto.
La domanda fondamentale è un’altra: lo rifarei? DFW è categorico – «mai più», scrive – io invece sono più possibilista: ebbene sì, forse lo rifarei. Però deve essere gratis, tutto gratis, e voglio stare dove stanno i super ricchi. Ché inizio ad avere una certa, e non so quanto ancora potrò tollerare gin tonic da sei euro e mezzo fatti col topicida. Poi vuoi mettere smaltire la sbornia alle tre di notte davanti a un trancio di ricciola alla griglia e patate novelle al forno?